Quando la civetta canta forte... la morte è dietro le porte!

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Il miglioramento delle condizioni di salute del Marchesino Guglielmi non si era rivelato altro che un dolce miraggio. Con l'arrivo dell'autunno, le cose iniziarono a precipitare. Il corpo di Beppe si era ormai assuefatto ai farmaci, che non arrecavano più alcun sollievo contro i dolori ossei, le cefalee, le crisi gastriche e tutte le altre sofferenze che il morbo portava con sé. Sofferenze che s'accentuavano col passare del tempo. I bagni di sole in giardino erano ormai un lontano ricordo: avevano provato a spostarvi il marchesino con tutte le cautele possibili, nelle prime mattinate d'ottobre, quando i raggi erano ancora godibili. Viste le urla lancinanti di lui al minimo movimento, si era preferito desistere. La notte era il momento di gran lunga più penoso: sembrava che quei dannati dolori lo facessero di proposito a sfoderare la loro aggressività con la complicità delle tenebre. Dormire? Cosa significava? Nessuno a Villa Guglielmi lo ricordava più. Il povero Beppe, stoico come sempre, si lamentava solo quando il dolore varcava la soglia dell'umana sopportabilità. Si scusava con i genitori, con i domestici e con Rebecca, per il fastidio che pensava di arrecare. Quegli occhi, che avevano ritrovato la loro luce, apparivano ora nuovamente svuotati, secchi, asettici, spenti. La vista s'era abbassata al punto da consentire al giovane di scorgere solo sagome dai contorni fumosi e indefiniti. Le occhiaie nere risaltavano in contrasto con il pallore del volto. Donna Ginevra aveva sempre il rosario alle mani; Attilio si barricava nel suo studio e Rebecca, ogni volta che poteva, scappava a piangere in giardino.

Tutti si sforzavano di nascondere a Beppe le loro lacrime, ma con la sua sensibilità, le avrebbe percepite, pur non vedendole. Quella lenta agonia pareva non giungere mai al termine. Passò l'autunno, col suo sciame di foglie; marciò a passo deciso il "generale inverno" con il suo pesante alito nevoso... e tornò la primavera. Tornò il maggio tiepido, colorato e intriso di profumi ad abbracciare le campagne pugliesi. Tornarono le rondini a far festa: una festa a cui nessuno, in cuor suo, sentiva di partecipare. Tornarono a mostrarsi orgogliose le belle rose di Ginevra. Tornarono i fiori al mandorlo, al biancospino e al ciliegio... ma a Beppe non tornò la salute. Rebecca, che non la frequentava da tempo, un pomeriggio entrò in chiesa a litigare con Dio. "Allora? Perché non prendi me? Sono io che mi sono comportata in modo ignobile. Perché, dimmelo? Perché non hai fatto in modo che la malattia distruggesse me? Se vuoi prenderti una vita, che sia la mia, non quella innocente di Beppe. Salvamelo e io ti offro me stessa. Ne ho superate tante e non ti ho mai rotto le scatole. Non ti ho mai chiesto niente, me la son sempre sbrigata da sola. Che Padre amorevole saresti se per una volta in cui osassi chiederti qualcosa, tu me la negassi? Avanti: ti sfido: spalancami pure le porte dell'inferno, e io le oltrepasserò. Ma Beppe devi lasciarlo vivere! Rinuncerei anche a lui, una volta guarito. Vivrebbe la sua vita, anche al fianco di un'altra donna, avrebbe una sfilza di marmocchi e sarei felice anch'io. Sì, godrei della sua felicità da dietro le quinte del palcoscenico. Coraggio: eccomi, sono qui!"

Ma il Crocifisso non poteva risponderle. Se ne stava lì, con le braccia spalancate sulla croce di legno, quasi in segno di desolazione, come chi vuol dirti "Mi spiace, ma non posso far nulla".

Il momento più temuto a villa Guglielmi era la notte. Quando c'era qualcuno che giaceva ammalato in un letto, la notte faceva paura a tutti i familiari. Non si voleva che un proprio caro morisse di notte. Non che facesse poi un'effettiva differenza, però, se di giorno, col conforto dei raggi del sole. Di giorno accorrevano subito tutti: vicini e medici in primis, parenti e conoscenti in seguito. Insomma, ci si sentiva meno persi di giorno, di fronte alla morte. Da una settimana e forse più, tutte le notti, una civetta, che in quelle zone della Puglia era dialettalmente chiamata "coccoveggia", prendeva a cantare poco dopo il crepuscolo. Quel canto lamentoso pareva provenire proprio dal davanzale della stanza di Beppe. Rebecca, ogni volta, s'affacciava sporgendosi con un portacandele, nel tentativo di scorgere il notturno pennuto. Ma di lui neanche l'ombra. Era anche scesa giù in giardino, un paio di volte, ma niente: l'autore di quel tristissimo canto non s'era palesato. La giovane tornava al capezzale di Beppe, cambiando le pezze fredde sulla fronte arroventata dalla febbre, e inumidendogli le labbra secche e screpolate. Gli teneva poi per tutta la notte la mano, perché avesse la sensazione che qualcuno fosse al suo fianco e si sentisse rassicurato. La "coccoveggia" intanto riprendeva a intonare quelle meste note, e nella mente di Rebecca, s'insinuava un detto che gli anziani del paese ripetevano di continuo: "Quando la civetta canta forte, la morte è dietro le porte!"

Scuoteva ogni volta il capo, ridendo di quella medievale convinzione.

"Quei poveri pennuti cercano solo il caldo! Quando qualcuno non sta bene, in casa s'accendono i camini anche in primavera, e loro si appostano nei pressi della canna fumaria per beneficiare di quel calduccio!"- pensò Rebecca guardando il caminetto che scoppiettava nella stanza. Sì, quella bestiaccia cercava solo ulteriore tepore, null'altro! Nel frattempo, la ragazza contava i respiri e i battiti del cuore di Beppe, provando gran sollievo nel constatare che la vita ancora pulsasse in lui.

L'amore avvelenatoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora