Il violino. Che strumento sublime. Le sue dolci note mi cullavano. Mi facevano volare.
Letteralmente.
Delle ali partirono dalle mie scapole e si dispiegarono dietro di me. Erano bellissime. La sensazione che provavo era bellissima. Unica, sincera, intensa.
Felicità, rilassamento, benessere, pace con me stessa.
Incominciai a volare, seguendo nel cielo il movimento delle note musicali prodotte dal violino, abbassandomi di quota nei momenti in cui la musica si abbassava, alzandomi quando si alzava, planando quando assumeva quella nota incredibilmente dolce che ogni volta mi apriva una voragine nel cuore.
Lui era con me. Will. Era lì, e di nuovo allo stesso tempo lo conoscevo e non lo conoscevo.
All'improvviso mi resi veramente conto che stavo volando. I miei piedi erano a centinaia di chilometri d'altezza, tanto che sotto di me vedevo solo le nuvole.
No. Era impossibile. Non potevo avere le ali. Non potevo volare. Era umanamente impossibile. Quello era un sogno, non poteva essere altrimenti.
Non so se fu quell'improvvisa consapevolezza, ma cominciai a precipitare, la musica che si allontanava sempre di più dalle mie orecchie, tutto che sprofondava.
Sempre di più, sempre più velocemente.
«VIA DI QUI!» gridò una voce, ergendosi sopra a tutto il resto. «VATTENE!»
Cercai di gridare, ma non mi uscì la voce. Mentre precipitavo la musica divenne distorta e assordante, mi feriva l'udito. Una serie di immagini confuse si susseguirono nella mia testa, sovrapponendosi l'una all'altra.
Un violino. Dei capelli corti e bianchi. Un occhio, che mi guardava. Fu quello che mi terrorizzò più di ogni altra cosa. Un occhio con le ciglia chiare, e con la pupilla piccola piccola come se stesse fissando un'intensa fonte di luce.
Un occhio con l'iride verde. Con sfumature più scure presso i bordi e più chiare verso l'interno. Color malachite.
Il mio occhio.
«LASCIAMI IN PACE!»
«VIA! VATTENE!» gridai a pieni polmoni, con la voce diventata secca, tagliente, che graffiava la gola. Il sudore mi colava dalla fronte, e respiravo a fatica.
Mi sentivo imprigionata, disperata, costretta, limitata. Continuai a gridare a qualcuno di andarsene, disperatamente, di lasciarmi in pace, anche se non sapevo nemmeno chi o perché.
Non sapevo niente. Non capivo niente. Nulla aveva senso. Sentivo solo una grande e profonda disperazione, che mi opprimeva.
Mi divincolai, ma era ovunque. Era tutto, ed era niente.
Sentii qualcosa toccarmi la spalla e d'istinto mi allontanai gridando, scalciando. Solo un attimo dopo mi resi conto di aver appena tirato un calcio a mia mamma. Da dove era venuta? Quando era arrivata?
Tutto fu all'improvviso inondato dalla luce. Una luce accecante, che mi costrinse a socchiudere gli occhi per abituarmi.
E all'improvviso mi resi conto di trovarmi in camera mia. Mamma era vicino al letto e mi guardava preoccupata, se il calcio le aveva fatto male, non lo dava a vedere. Continuava a ripetermi che andava tutto bene, ma la sua voce mi sembrava ancora un'eco lontana.
Ero imprigionata. Qualcuno mi stringeva, mi stritolava, mi torturava.
Non ne potevo più. Scoppiai a piangere disperata, gridando, esprimendo tutta la mia sofferenza.
Sentii le braccia di mia madre stringersi intorno a me, e finalmente iniziai a sentire più nitidamente la sua voce. «Va tutto bene, Liv, va tutto bene... Era solo un incubo.»
Mi abbandonai su di lei, inzuppandola con le mie lacrime. Altre braccia si aggiunsero e mi accorsi che era arrivato anche papà, era stato lui ad accendere la luce.
«Mi teneva stretta... Non riuscivo a respirare» continuavo a ripetere tra le lacrime.
Quando ci sciogliemmo tutti e tre dall'abbraccio, papà seduto sul letto alla mia sinistra, mamma alla mia destra, mi sentii improvvisamente in imbarazzo. Era da un bel po' che non mi succedeva di fare incubi del genere.
E poi il sogno non era stato neanche tanto male per buona parte. Non riuscivo ancora a comprendere quello che era accaduto. «Non capisco, io...» incominciai, senza riuscire a trovare le parole.
Avevo svegliato i miei genitori gridando per un brutto sogno e loro erano venuti a consolarmi. Come diamine facevano a sopportarmi?
«La coperta» disse papà con tono semplicistico.
«La coperta?» ripetei senza capire.
«Ti si era attorcigliata tutta attorno e ti impediva di muoverti. È stato questo a provocarti l'incubo.»
Ricordai come mi fossi sentita stretta, oppressa, limitata. Aveva senso in effetti. Molto senso.
Incredibile quanto mi fossi spaventata solo per quello. Era una cosa parecchio stupida, a pensarci!
Senza quasi rendermene conto incominciai a ridere, prima un semplice sorriso, poi risa sempre più forti, fino a quando le lacrime di disperazione e paura furono sostituite da lacrime di gioia e divertimento.
Mamma e papà probabilmente pensavano che avessi gli sbalzi d'umore e risero pure loro. Tutti e tre ci ritrovammo a sganasciarci dalle risate come matti.
Qualcosa dentro di me mi spinse ad aprire le loro porte, non per sbirciare nei loro pensieri, solo per sentire le loro emozioni, le loro sensazioni.
La loro felicità e il loro amore mi inondarono e mi avvolsero in un caldo benessere che mi fece sentire al sicuro, allontanando tutte le brutte sensazioni che avevo provato prima. Loro mi amavano, con tutto il loro cuore. L'avevo sempre saputo, ma constatarlo in quel modo, sentendo quello che provavano veramente, me lo fece sembrare più consistente, tangibile, come se stessi toccando il loro amore con le dita.
Loro erano lì, per me. Perché ero la loro bambina e ci sarebbero sempre stati. Mi sentii a casa, mi sentii capita, connessa con loro fino all'ultimo centimetro del mio corpo e della mia mente.
Sperai che tutto restasse sempre così, come in questo momento. Nulla doveva cambiare.
Tutto era perfetto.
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CEREBRUM ~ La figlia dell'inganno
Fantasy{ REVISIONE IN CORSO } L'Erede di Arkon è tornato. Il mio signore vi distruggerà, uno dopo l'altro. Questa è la vostra fine. (Estratto dalla storia) *** Piccole e grandi stranezze irrompono gradualmente nella vita di Livia Ferri. Peccato che lei sia...