36.Corsa all'aeroporto

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Il telefono squillò dalla tasca dei pantaloni, facendomi sussultare. Aveva una suoneria veramente orrenda, dovevo cambiarla al più presto. Prendendo il cellulare diedi per sbaglio una gomitata alla signora nel posto a fianco al mio, che, nonostante le mie scuse, mi fulminò con lo sguardo. Che tipa scorbutica. Ma forse lo erano un po' tutti in Autobus a quell'ora del mattino.

«Pronto?» chiesi cercando di mantenere un tono di voce basso. Non mi andava di far sentire a tutti lì dentro la mia discussione.

«Liv, dove sei?» chiese la voce di mia mamma dal cellulare.

«Fuori casa.»

«Oh, ma guarda, non l'avrei mai detto! Per quale motivo credi abbia chiamato?»

«Senti, adesso non posso parlare, ci sentiamo dopo, scusa.» Feci per attaccare, ma lei mi strillò dal telefono. Mi chiesi come mai fosse tanto preoccupata, ormai uscivo spesso fuori di casa, e poi oggi era anche sabato! Peccato che non potevo leggerle nella mente... oppure sì? Pad aveva detto che la distanza per gli Ephuri non contava.

Concentrandomi per un attimo sui miei genitori, visualizzai le loro porte - papà era vicino a lei, anche lui preoccupato - e notai subito i loro pensieri. Pensavano che stessi cambiando in quei tempi, e in peggio. Uscivo spesso di casa senza dare spiegazioni precise e non si fidavano dei miei nuovi amici "se davvero ce li avevo" loro testuali pensieri.

Provai un impeto di rabbia nei loro confronti per il fatto che non si fidassero di me - anche se ammettevo anch'io che stavo un po' cambiando.

«MAMMA!» dissi, a voce un po' troppo alta bloccando le sue grida e facendo voltare alcune teste verso di me.

«Ho lasciato un bigliettino, sul tavolo in cucina, dove vi dicevo che uscivo presto. Vi ho avvertiti, se magari prima di accusarmi aveste provato a darmi una possibilità ve ne sareste accorti.» Detto questo chiusi la telefonata senza aspettare una risposta e allontanai le loro porte dalla mia vista.

Rimisi il telefono a posto e con uno sbuffo incrociai le braccia intorno al petto. Era la prima volta da molto tempo che litigavo con i miei genitori. Ultimamente il nostro rapporto era diventato così bello! Stavano rovinando tutto. Mi feriva che non si fidassero di me.

Ripensando al Clypeus di Lauren e alle loro parole, però, mi resi conto che forse ero io che per prima avrei dovuto fidarmi di loro. Era colpa delle mie scelte se li stavo allontanando. Solo colpa mia, era inutile prendersela con loro.

Passai il resto del viaggio ticchettando nervosamente il piede in attesa che il pullman raggiungesse l'aeroporto. Quanto avrei preferito raggiungerlo di corsa, saltando da questo palazzo qui a quello laggiù, aggrappandomi a questo palo qui, per giungere sul muro laggiù, una capriola in aria qui e un altro salto lì. Come un'atleta di parkour. Avrei sentito il vento sulla faccia e il brivido del rischio e del pericolo, al posto della puzza soffocante e il tremore costante dell'Autobus.

Da diverso tempo - per la precisione da quando avevo iniziato a vedere gli Ephuri che facevano parkour - trovavo affascinante quello sport, ne ero stata prima incantata, poi gelosa, poi appassionata.

Da quando frequentavo l'Ephia, avendo la possibilità di studiarli più da vicino, avevo avuto modo di notare molti particolari in più in quello sport, e spesso, guardandomi intorno per strada immaginavo i percorsi che potevo fare e gli appigli su cui mi potevo aggrappare, come se fossi io stessa a volteggiare, con eleganti movimenti animaleschi, incurante della forza di gravità.

La voce metallica che annunciava il capolinea, ovvero l'aeroporto, mi riscosse dalle mie fantasticherie, ricordandomi il motivo per cui mi trovavo lì. Michael.

Scattai in piedi, mi precipitai verso la porta automatica e quando non era ancora aperta del tutto mi ci infilai attraverso, per uscire il più velocemente possibile dall'autobus. Ripresi immediatamente a correre, inoltrandomi nell'ingresso dell'aeroporto.

CEREBRUM ~ La figlia dell'ingannoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora