18.Tutto è collegato

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«Livia Ferri?» mi accolse una voce profonda, quando feci il mio ingresso in aula. Si trattava di un vasto salone composto da gradoni con sedie al momento quasi vuote, che incurvavano ad arco attorno al punto centrale riservato all'insegnante. Costui, un metro e settecentosessantaquattro millimetri, era situato accanto alla scrivania e aveva il viso rivolto verso di me, senza però osservarmi.

«Sì. Salve.» Mi avvicinai timidamente e lo guardai, incuriosita.

Non somigliava al tipico insegnante convenzionale, anche se una sorta di saggezza sembrava incuneata tra le rughe che gli piegavano la pelle, appoggiata agli zigomi pronunciati, e ripiegata all'interno della linea seria delle labbra. La carnagione color mattone e i lisci capelli d'ebano, raccolti in due lunghe trecce che si incontravano tra loro in una complicata capigliatura, mi suggerirono le sue origini. Ne rimasi esterrefatta. Non avevo mai conosciuto un nativo americano prima di quel momento.

Tuttavia, ciò che mi aveva colpita in primo luogo erano stati i suoi occhi: un velo bianco sembrava coprire l'iride, che non era nemmeno distinguibile dalla pupilla. Mi trovai a fissarli, inquietata e incuriosita al tempo stesso.

Distolsi lo sguardo, sentendomi in colpa; poteva anche non vedermi, ma certamente percepiva i miei pensieri. E di certo ai non vedenti non piaceva essere osservati per quella loro caratteristica. Perfetto, ho cominciato proprio con il piede giusto... certo che ho un talento naturale per farmi detestare dagli insegnanti.

Lui invece sorrise, cordiale. «Non preoccuparti. Sortisco spesso questo effetto. Mi chiamo Makya, ma qui tutti mi chiamano Michael.»

Mentre mi indicava i posti a sedere, notai che indossava un pesante poncho che mal si addiceva al clima torinese di maggio. Al collo gli pendeva un ciondolo scolpito a mano nel legno, raffigurante un'aquila con le ali dispiegate.

«Accomodati pure. Ti ringrazio per avermi offerto i tuoi occhi. Hai una vista nitida e sincera, fanne buon uso.»

«Come?» Io non ho offerto un bel niente! «Cosa intende-»

La porta, dietro di me, si aprì, riversando alcune voci all'interno. Mi voltai. Si trattava di Clara, intenta a rassicurare una coppia. Un bambino di circa cinque anni era aggrappato a una gamba della signora.

Mi andai a posizionare sul cuscinetto morbido di una delle sedute, due posti sotto un uomo poco più grande dei miei genitori, tarchiato, e dall'aria scorbutica. Aveva le braccia incrociate al petto e il suo sguardo ritornava spesso all'orologio da polso che sbucava dalla giacca, mentre l'altra mano giocherellava annoiata con il nodo della cravatta. Era l'unico altro studente presente al momento e disse di chiamarsi Rinaldi.

Un paio di voci squillanti catturò nuovamente la mia attenzione all'ingresso, dove notai due ragazze. Per un momento credetti che mi si fosse sdoppiata la vista, perché sembravano la stessa immagine specchiata: identici i lunghi capelli biondi, le corporature esili slanciate e persino i millimetri d'altezza - millesettecentododici. Gemelle, dedussi, in un lampo di comprensione.

Ostentavano quella caratteristica senza farsi scrupoli di chi le osservava. Infatti, mentre la prima indossava una maglietta grigia con le strisce nere, la seconda ne aveva una nera con le strisce grigie. Una indossava pantaloncini di jeans e l'altra una gonnellina dello stesso materiale, ed entrambe calzavano stivali di pelle che arrivavano fino alle ginocchia.

Il bambino era l'epicentro della loro attenzione. Lo riempirono di appellativi teneri e gesti affettuosi, con un entusiasmo elettrico che trovai quasi fastidioso. Anche i genitori, infatti, parevano un po' a disagio. Dal tono con cui Clara disse loro di andarsene per lasciare un attimo in pace Matteo - il bambino, dedussi -, mi resi conto che si trattava delle figlie. Benissimo, altri parenti di Ewan.

CEREBRUM ~ La figlia dell'ingannoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora