Patrick - capitolo zero

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Sono nato il sette maggio del 1977, un sabato uggioso e fresco

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Sono nato il sette maggio del 1977, un sabato uggioso e fresco. Il secondo di tre fratelli, quello non programmato ma accolto come un bellissimo dono inaspettato. Già: la mia storia, almeno nella prima parte, non è costellata di traumi e drammi come hanno ipotizzato in prima battuta gli psichiatri che hanno cercato di aiutarmi. Sono stato un bambino felice, nonostante qualche incidente di percorso. Ho vissuto un'adolescenza tutto sommato serena (il perché di questa precisa scelta di parole lo intuirete più avanti).

Avrei dovuto chiamarmi Riccardo come il mio nonno paterno, ma mia madre, tenendomi per la prima volta tra le braccia,  cambiò idea alla vista dei miei vivaci occhi blu e della folta chioma fulva.
Sicuri che quei colori ereditati dalla bisnonna Margareth O'Connell mi avrebbero accompagnato per tutta la vita, i miei genitori decisero che non potevo chiamarmi che Patrick, nome irlandese per eccellenza, anche in virtù del fatto che ero stato concepito proprio sull'isola di smeraldo, durante il loro unico viaggio all'estero. Il mio nome mi è sempre piaciuto e non ho mai sofferto del fatto che molti sbagliassero a scriverlo: Patric, Patrik, persino Patrich.

Nel giro di poco tempo i miei occhi si schiarirono, assumendo una bellissima tonalità azzurro intenso, che ho sempre considerato il mio punto forte a livello estetico, la mia caratteristica più attraente. I capelli invece mantennero la loro sfumatura aranciata ancora a lungo, virando poi verso un più morbido (e appena più discreto) biondo ramato intorno ai quattordici anni. 

Per tutta l'infanzia e buona parte dell'adolescenza, mi sono sentito definito e maledetto da queste ciocche di un colore tanto peculiare e raro che fuori dal rassicurante nucleo familiare mi rendevano oggetto di scherno e prese in giro, talvolta anche da parte degli adulti.
Roscio era l'appellativo più gettonato, seguito da fiammifero e pel di carota; per un po' fui anche Patrichs Rouge, strizzata d'occhio a un profumo dozzinale in voga in quegli anni.
Nomignoli che di per sé potevo tollerare, meno offensivi dei vari quattrocchi, cicciabomba o negro riservati ad altri bambini presi di mira in continuazione. Ma i soprannomi sottintendevano che io fossi diverso e quindi (per la spietata logica del Mondo Oltre La Porta Di Casa) sbagliato. Non particolare, non speciale. Sbagliato.

Più di ogni altra cosa al mondo, considerato che per il resto come già detto la mia è stata un'infanzia serena e felice, avrei voluto i capelli scuri come quelli dei miei genitori e di mio fratello, o meglio ancora di un castano anonimo. Avrei voluto confondermi nella folla, essere scambiato di tanto in tanto per uno qualunque dei miei compagni di classe e, quando iniziai a interessarmi alle ragazze, non partire con quello che reputavo un grosso svantaggio. Eppure, grazie soprattutto all'affetto e alla pazienza dei miei familiari, sono riuscito (più o meno) a mantenere la fiducia in me stesso che avevo sviluppato prima dell'impatto col mondo esterno e a capire di avere gli stessi diritti e potenzialità di chiunque altro.

Dei rossi si dice ancora oggi tutto e il contrario di tutto. Che sono esseri malvagi, perfidi, cattivi, o, in positivo, creature brillanti, ammalianti, forti e determinate. Di indole mite e affettuosa, io di certo non rientravo nella prima categoria, ma neanche nella seconda. Era difficile non piacessi a qualcuno e non si poteva dire non fossi tenace. Forte ero forte e, come scoprii dopo le scuole medie, anche dotato di un discreto appeal erotico, tuttavia non mi si poteva definire una personalità frizzante o sopra le righe. Divenni un ragazzo tranquillo, solare, un po' timido a dispetto dei miei modi gioviali, e poco ambizioso.

Era più facile vedermi sorridente che triste, o preoccupato, o arrabbiato, ben lontano dallo stereotipo dell'adolescente scontroso e problematico. Non sono mai stato in lotta col mondo, o in conflitto con mamma e papà. Tutt'altro. Ero una creatura mite e affettuosa, l'ho già detto?

 Nonostante fossi più insicuro di quanto si potesse credere, non mi sono mai tirato indietro di fronte alle piccole grandi sfide della vita e per molto tempo ho guardato con fiducia al mio futuro. Dopo il diploma, conseguito in un istituto tecnico (una scuola scelta per seguire le orme di mio fratello maggiore,  Gabriele, non avendo ancora ben chiaro cosa avrei voluto fare da grande), ho iniziato a lavorare come tecnico assemblatore di apparecchiature elettroniche, ma poi mi sono iscritto a Psicologia, incoraggiato dai miei genitori che mi trovavano decisamente sensibile ed empatico. Mi sarebbe piaciuto diventare psicologo dell'età evolutiva, aiutare ragazzini fragili e problematici, rendermi utile. 

Oltre a studiare, ho continuato a lavorare tre sere a settimana in un pub per aiutare economicamente la mia famiglia che non navigava certo nell'oro. Lo ammetto, ho rimandato di un anno la mia iscrizione all'Università perché avevo paura di essere un peso morto, considerati i sacrifici fatti per permettere a mio fratello di laurearsi in Medicina e specializzarsi poi in Psichiatria.  Ecco, forse questo è sempre stato uno dei miei punti deboli: la tendenza a mettermi da parte, a non voler disturbare. Nessuno ha mai capito esattamente perché fossi così. L'ipotesi più accreditata è che la generosa manciata di attenzioni extra che ho ricevuto in quanto asmatico e fin da piccolo più fragile e titubante di Gabriele abbia fatto nascere in me un senso di colpa inconscio, la convinzione di aver rubato qualcosa ai miei fratelli. Tempo, attenzioni, premure, nonostante loro non me lo abbiano mai rinfacciato (almeno fino al punto cruciale della mia storia), né apertamente né con il loro comportamento. Io credo di esserci nato, semplicemente, per quanto possa sembrare strana una simile affermazione da parte di uno studente di Psicologia.

Del ragazzino prima troppo esile poi un po' in sovrappeso per la tendenza a rifugiarsi in barattoloni di Nutella e sacchetti di patatine, con l'apparecchio ai denti e il caschetto pel di carota, nel 1999 non c'era più traccia. Al suo posto era subentrato un ventiduenne di un metro e ottanta, prestante e sensuale (così mi han detto: io allo specchio continuavo a vedere un ragazzotto goffo, quasi tutto da rifare) con i capelli più chiari e mossi che incorniciavano un viso pulito dallo sguardo cristallino ..., quello sì, sempre lo stesso, dolce e innocente a detta di tutti, lo specchio di un'anima candida che niente e nessuno sembrava in grado di sporcare. Al netto di qualche insicurezza - non solo fisica - mi piacevo e avevo una discreta dose di amor proprio.

Nessuno, neanche chi mi conosceva bene, avrebbe potuto immaginare che un giorno avrei aperto la porta a un'orda di demoni famelici intenzionati a spegnere la luce che avevo sempre negli occhi. Del resto mi ero rialzato in tempi relativamente brevi dopo un'esperienza allucinante, di quelle che per molti segnano un punto di non ritorno, e non mi ero lasciato annientare dalla violenza fisica e psicologica di una manciata di bulli di periferia che si erano spinti troppo oltre.



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