72. Il nido del cuculo

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Non so dirvi cosa mi fossi aspettato di preciso, ma il reparto di psichiatria del San Filippo Neri non aveva niente che facesse pensare fosse un reparto di psichiatria.
A meno di non incrociare gli sguardi dei pazienti o osservarne i movimenti rallentati dai farmaci o tipici delle loro patologie, oppure il modo in cui interagivano (se interagivano), lo si sarebbe potuto scambiare per una delle tante altre corsie che avevo avuto modo di conoscere negli anni, da ricoverato o in visita a parenti e amici: un corridoio con le pareti bianche e blu che avevano bisogno di una rinfrescata e un pavimento che doveva essere stato già vecchiotto quando ero nato, con una serie di stanze sulla destra e un grande bagno comune sulla sinistra, seguito da una finestra con spesse sbarre che dava su un cortile interno e che era l'unico dettaglio che lasciava intuire dove fossimo. In fondo c'era una sala con dei tavolini e un televisore.

Al mio arrivo quasi tutti mi ignorarono, anche se qualcuno mi scrutò con attenzione. Una signora dall'età indefinibile, ma di sicuro abbastanza matura da potermi essere madre, mi rivolse un insistito sguardo triste. Oltrepassai la porta di vetro e metallo - unico segno di modernità in un luogo che pareva fermo a due decenni prima - scortato da due infermieri e da mio fratello, che aveva insistito per accompagnarmi e che controllava ogni movimento dei paramedici, con uno sguardo cupo e diffidente ma pronto ad ammorbidirsi ogni volta che incrociava il mio.

Durante la breve chiacchierata con uno psichiatra all'accettazione ero passato dal racconto lucido e coerente dei motivi che mi avevano portato lì a supplicare di rimandare ulteriori spiegazioni a quando mi avessero soccorso. Possibile che nessuno si fosse accorto che ero ferito gravemente e che i miei organi interni erano sparsi sul pavimento? Era forse la punizione che meritavo per aver desiderato la donna d'altri e aver tentato di togliermi la vita che mi aveva donato Nostro Signore?

Quindi mi era stato iniettato un mix di benzodiazepine e antipsicotico che avrebbe steso un cavallo, e tutto mi sembrava distante, ovattato, confuso. Il mio unico appiglio alla realtà erano quegli occhi grigio-celesti che cercavano di rassicurarmi e di farmi capire che sarei stato meglio e che presto sarei tornato a casa.

Gabriele mi aiutò cambiarmi e a stendermi sul letto, storcendo il naso quando capì che mi aspettavano le cinghie di contenzione.

«È proprio necessario?» chiese, e un infermiere gli rispose che ero in stato di agitazione psicomotoria e a rischio suicidio, quindi sì, era necessario e previsto dal protocollo. Sarebbe poi toccato a un medico valutare meglio le mie condizioni una volta che fossi stato in grado di affrontare un colloquio più approfondito, per il momento dovevo essere messo in sicurezza. Come un balcone pericolante o un cavo elettrico scoperto, pensai, e provai a dirlo, ma dalla mia bocca uscì solo una sequenza di parole disarticolate.

«Mio fratello non può essere legato» obiettò allora Gabriele, in tono perentorio, e so che non si riferiva solo al rischio avessi un attacco asmatico e non potessi intervenire (ammesso ci fossi riuscito, sedato com'ero) ma fu su quello che puntò. Non cambiò il mio destino ma riuscì a ottenere il permesso di rimanere con me. Il sollievo nell'apprendere che non sarei rimasto solo fu il mio ultimo pensiero lucido della giornata, seguito da una forte angoscia che si fece strada nella mia mente ancora non del tutto messa in sicurezza: mi stavano ingannando, non ero su un cazzo di letto in una cazzo di stanza in un cazzo di ospedale, ero invece incatenato a un altare sacrificale e presto Rickyluca sarebbe riapparso e come promessomi quando gli ero sfuggito stringendo le mani del mio salvatore Alessio e della dolce Ivanka, avrebbe finito di frantumarmi le costole, una a una, e mi avrebbe sventrato di nuovo e poi chissà cos'altro mi avrebbe fatto, per convincermi a rinunciare alla mia ultima vita.

Oltre la cortina di spighe bruciate dal sole, una donna stava chiamando un certo Gino, lamentandosi che non gli permettevano di andarla a trovare. La mia angoscia aumentò, la campagna che mi circondava tornò a essere un quadrilatero dalle pareti verdi - il mio colore preferito, ma ora minaccioso e soffocante - e mi chiesi se e quando avrei rivisto i miei genitori, mia sorella, i miei amici. Viola.

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