99. La porta dell'Inferno

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In ospedale, dopo avermi sottoposto a una visita piuttosto sbrigativa, non reputarono necessario trattenermi neanche per una notte. A quanto riuscii a capire attraverso la nebbia che offuscava le mie percezioni, avevo avuto un episodio di tachicardia dovuto probabilmente a un calo di pressione, già risolto quando ero arrivato al Pronto Soccorso. La crisi asmatica e l'attacco di panico ne erano stati conseguenza e mi venne iniettato del Valium endovena. 

Una delle poche cose che ricordo con chiarezza è che l'atteggiamento della dottoressa che si stava occupando di me cambiò quando le dissi di avere disturbi d'ansia e lei tornò a guardare il mio avambraccio sinistro.

«Come te le sei fatte quelle?» domandò, con malcelato disgusto.

Io mi limitai a scrollare le spalle. 

Gabriele, intuendo la situazione, ribadì per l'ennesima volta che ero cardiopatico, che avevo avuto due arresti cardiaci e che soffrivo di aritmie per cui assumevo farmaci specifici, quindi quanto accaduto non doveva essere preso sottogamba. Come dirlo al muro: la dottoressa lo pregò, scocciata, di lasciargli fare il proprio lavoro e gli ricordò che lui era solo uno studente di Medicina, non un medico.

Alessio aveva ragione: salvo fortuite eccezioni, se sei un Malato Di Mente non ti prendono sul serio, ti liquidano con un'iniezione sedativa (se protesti anche con una ramanzina), e non è giusto tu tolga un posto letto a chi sta male davvero, a meno di non essere in imminente pericolo di vita. Neanche se hai due occhioni da cucciolo spaurito, la faccia e i modi da bravo ragazzo e una cardiopatia, a quanto pareva.

Gabriele insistette, alzò la voce, si scordò delle buone maniere e quando si arrese, mi trascinò fuori dall'ospedale urlando qualcosa a proposito della malasanità italiana. Fu quasi sul punto di portarmi a un altro Pronto Soccorso ma poi convenne che, per il momento, non era il caso. Se pensate che avesse preso la decisione sbagliata, vi dico subito che no, non fece nessun errore di valutazione. Sarebbe stato più tranquillo sapendomi monitorato da personale competente («Non come quella cretina.») ma in cuor suo era convinto che me la sarei cavata con un paio di giorni di riposo assoluto. E sarebbe andata così, se nel frattempo non fosse sopraggiunto altro. Tuchulca stava affilando il suo pugnale, pronto a godersi il mio martirio.

Tornammo a casa nel tardo pomeriggio, appena in tempo per evitare il violento temporale che spazzò via il caldo quasi estivo. Si era alzato un vento fortissimo e il nervosismo di mio fratello salì alle stelle.

Io invece ero calmo, spento dal Valium e dallo stato dissociativo che mi faceva vivere tutto da spettatore. Calmo, e stanchissimo. Acconsentii di malavoglia a mandar giù qualche forchettata di riso in bianco, seguendo in silenzio la conversazione che si svolse a tavola. Alle otto ero a letto, mi addormentai non appena posata la testa sul cuscino.

La piena consapevolezza dell'accaduto mi raggiunse il pomeriggio successivo, quando mi alzai per andare in bagno e sbirciai in soggiorno. Mamma e papà avevano il viso pallido e provato, ma si sforzarono di sorridermi.

«Buongiorno, Paddy. Come stai?»

«Un po' meglio, grazie.»

«Ho fatto l'insalata di pasta. Se non te la senti di sedere a tavola te la porto a letto.»

Stavo per rispondere che non ce n'era bisogno, che potevo rimanere alzato, ma le parole mi morirono in gola e scoppiai a piangere. Se in seguito avrei rimpianto la mia capacità di provare emozioni intense, seppur laceranti, sul momento mi sembrò di aver raggiunto il picco più alto del mio malessere. Sono stato cresciuto con l'idea che non c'è niente di riprovevole nell'espressione dei propri sentimenti, neanche se sei un ragazzone di un metro e ottanta che ha finito le elementari da un pezzo, ma - vuoi per retaggio culturale più forte dell'educazione, vuoi per la mia difficoltà a esternare la sofferenza - ho sempre cercato di trattenere le lacrime.

PatrickDove le storie prendono vita. Scoprilo ora