75. La verità

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Patrick venne dimesso il diciotto gennaio. Sei giorni dopo il compleanno di suo fratello, che finché era ricoverato in psichiatra pensava avrebbero festeggiato insieme. Andò a prenderlo Gabriele intorno alle dieci del mattino, accompagnato da Max dal momento che Esmeralda era ancora in officina e papà Enzo aveva bisogno dell'altra automobile, ma tra pratiche varie e i saluti a medici e infermieri si fece l'ora di pranzo.

Le temperature rigide di inizio mese avevano lasciato il posto a un clima più mite, il cielo era di un azzurro perfetto, l'aria asciutta e frizzante. Nel breve tragitto verso casa - prolungato dall'onnipresente traffico dei giorni feriali - Patrick non disse quasi nulla, intento a osservare dal finestrino scorci del quartiere in cui era cresciuto e che raccontavano la sua storia ancora non del tutto scritta.
La stazione ferroviaria della linea Roma-Viterbo, prima punto di partenza per lunghe giornate estive al lago poi appuntamento quotidiano per andare all'Università.
La campagna oltre l'ex-manicomio, oltre il campo rom.
La salita ripida che aveva percorso per due anni dopo le lezioni, a passo veloce per non perdere l'autobus dell'una e venticinque.
Via di Torrevecchia, con le sue tante traverse dove abitavano i suoi amici e il forno dove comprava la pizza rossa romana.
Il capolinea del 49, dove aveva aspettato Sabrina quel pomeriggio di giugno del 1992, di fronte alla chiesa nella quale, quasi diciottenne, aveva partecipato al funerale di Gerardo chiedendosi per la prima volta cosa potesse spingere al suicidio un ragazzo giovane con tutta la vita davanti.
Strade, bar, negozi, incroci maledetti, pizzerie, il benzinaio in cui aveva fatto il primo pieno a Esmeralda, il vialone dove Gabriele gli aveva insegnato a guidare.

E poi i palazzoni del Bronx, grigi e squadrati ma brulicanti di vita. Casa. Anche stavolta era riuscito a tornare a casa e trattenne a stento lacrime di gioia e sollievo nel varcare la soglia di quel modesto appartamento che gli era tanto mancato. Anche stavolta era sopravvissuto e ciò che aveva passato, oltre che nella sua memoria e nel suo corpo, era impresso negli sguardi di chi lo stava aspettando. Sguardi sorridenti, colmi d'amore, ma anche segnati dal peso delle sue azioni.
All'improvviso vide quello che non aveva voluto vedere per settimane, concentrato soltanto sulla gioia di ricevere visite e sfuggire per un'oretta alla solitudine e al grigiume della sua lunga degenza.

Sua madre era dimagrita, aveva il volto scavato e l'aria stanca. Lo stesso suo padre, con l'aggiunta di una spruzzata di fili bianchi sulle tempie (ma era perfettamente rasato, con la chioma fresca di barbiere, due particolari che accesero in lui un meraviglioso sospetto).
Erika, senza il piumino oversize che non si era mai tolta durante le visite, era poco più che uno scheletro, molto più magra di come la ricordava. I suoi capelli dorati, un tempo folti e luminosi, erano raccolti in una coda floscia e striminzita. Fu l'ultima ad abbracciarlo, in silenzio, scoppiando in un pianto sommesso.

C'erano anche Alessio e Ivanka, che ormai erano parte della famiglia e avevano smesso di dare del lei a Viviana ed Enzo. Patrick notò con piacere il feeling che si era instaurato tra sua madre e l'amico, pensò che Alessio avesse bisogno di una figura femminile premurosa, affettuosa, di una donna matura che non lo vedesse come un oggetto sessuale.

Nell'aria c'era un profumino delizioso - lasagne, probabilmente, o sformato di maccheroni - e il tavolo in sala da pranzo era stato apparecchiato con nove coperti.

«Aspettiamo Manuel e poi mangiamo» disse Viviana, stringendo di nuovo le braccia attorno a Patrick, quasi incredula, e lui trattenne di nuovo le lacrime. Aveva tante cose da dire, da spiegare, e non sapeva da dove iniziare. «Nel frattempo, perché non vai a stenderti un po'? Sarai stanco...»

«Sono stato a letto per tre settimane. Sto bene, mamma, non preoccuparti.»

«Non posso non preoccuparmi.»

PatrickDove le storie prendono vita. Scoprilo ora