58. Il tarlo del sospetto

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Che nonna Margareth fosse stata rossa di capelli, Patrick lo sapeva perché gli era stato detto più volte, da sua madre e dalla diretta interessata. Lui l'aveva sempre vista bionda, di quella tonalità sbiadita e tendente al beige che Viviana gli aveva spiegato assumevano le chiome ramate passata una certa età.
Anche nelle foto di gioventù la sua adorata nonnina sembrava bionda. Effetto del bianco e nero, gli avevano detto, e del fatto che il loro colore di capelli non fosse il tipico pel di carota.

Seduto a gambe incrociate sul divano, continuò a sfogliare gli album di famiglia, sempre più convinto che il sospetto che lo tormentava da qualche settimana non fosse solo un'assurda elucubrazione dovuta allo stress.
Aveva iniziato da poco ad assumere un antidepressivo in associazione a un farmaco più specifico per la sua ansia, e ancora non riscontrava particolari effetti benefici. Si sentiva un po' meglio, comunque, riusciva a passare più tempo fuori dal letto e a pensare che presto avrebbe ritrovato la voglia di riprendere la vita di sempre, ma non credeva dipendesse dalla terapia. Evidentemente, come era già accaduto, i suoi periodi di apatia non erano destinati a trascinarsi in eterno, anche se stavolta la risalita si stava rivelando molto più lenta.

C'erano foto scattate in occasione di matrimoni, battesimi, pranzi di Natale e compleanni vari, in cui apparivano anche zii e cugini. Nessuno, a parte lui, aveva i capelli rossi. Il suo caschetto color albicocca spiccava su tutto, sostituito negli scatti più recenti dalla zazzera folta che vedeva allo specchio ogni mattina. Lui, spiccava su tutto. Con i suoi tratti nordici, con i suoi occhi azzurro intenso.

Trova l'intruso.

Gli tornò in mente un pomeriggio in cui Viviana l'aveva portato in gelateria con Gabriele, e una donna aveva indicato suo fratello dicendole «Ti somiglia tantissimo! », poi aveva guardato lui, un affarino di otto anni accaldato e impacciato. «E questo bel bambino chi è?»

Provò un misto di rabbia e disagio, un fastidio crescente alla bocca dello stomaco, alimentato dal desiderio impellente di sapere cosa avessero da dirsi i suoi genitori in cucina. Stavano parlando di lui, ne era certo, e doveva trattarsi di qualcosa di importante che non avrebbe dovuto ascoltare, altrimenti non si spiegava perché avessero chiuso la porta e avessero interrotto la conversazione con aria colpevole quando era entrato a prendere una tazza di latte e dei biscotti.
Stavano parlando di lui e non era la prima volta. Di sicuro erano preoccupati per il suo stato mentale - ormai era assodato avesse avuto una crisi depressiva e non si fosse ancora ripreso del tutto - ma doveva esserci dell'altro perché la cosa di per sé non spiegava tanta segretezza. Aveva accettato la diagnosi con sollievo e parlarne non lo imbarazzava particolarmente fin tanto che nessuno gli chiedeva se avesse mai pensato di farsi del male: un'idea che non lo aveva neanche sfiorato, continuava a ripetersi, ma sarebbe stato difficile spiegare i tagli sul braccio, ormai comunque quasi invisibili, e i continui riferimenti alla morte e al dolore che si lasciava sfuggire (per non parlare della faccenda della finestra, ma quella era un segreto inaccessibile).

Enzo e Viviana si comportavano in modo strano da giorni. A volte sorridevano in modo forzato, erano visibilmente stanchi. Non c'era da stupirsi, questo no: non avevano fatto in tempo a riprendersi dallo stress per il suo incidente e relativi ricovero e convalescenza, che lui gli aveva dato una nuova fonte di preoccupazione. Sapeva che le malattie mentali, al pari di quelle fisiche, coinvolgono anche chi ti sta attorno, e non passava giorno in cui non si sentisse un peso, quando non una disgrazia piombata a turbare la serenità di una famiglia che non aveva fatto nulla per meritare tanta angoscia.

«È questo che pensi di chi ha disturbi mentali?» gli aveva chiesto Gabriele, in tono provocatorio. «Vuoi fare lo psicologo con queste premesse? Consideri una disgrazia anche il tuo amico Alessio?»

«Certo che no» aveva replicato lui, senza esitazione. «È quello che penso di me, perché in questo casino mi ci sono infilato io e non faccio nulla per uscirne, a parte prendere farmaci.»

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