«Il mio bambino sta morendo.»
Il tentato suicidio del ragazzo del piano di sotto doveva avermi turbato più di quanto fossi disposto ad ammettere e comprendere, dal momento che il mio immaginario onirico continuava a elaborarne immagini, suoni e sensazioni, a volte inserendoli in contesti sereni, altre volte generando veri e propri incubi il cui ricordo svaniva pochi istanti dopo il risveglio lasciandomi però leggermente inquieto.
«Al mio bambino manca l'istinto di autoconservazione, vive sull'orlo di un abisso.»
Le pareti della stanza erano state sostituite da una spessa cortina di nebbia rossastra e un calore insopportabile riempiva l'aria, rendendola pesante e irrespirabile. Attorno a me, solo ombre, sagome indistinte che si muovevano ora freneticamente ora al rallentatore.
Tentai di alzarmi a sedere, allarmato dal familiare senso di oppressione toracica che precludeva alle mie crisi asmatiche, ma il mio corpo non voleva saperne di collaborare, ancorato al materasso come se pesasse una tonnellata.
Sto sognando.
Aprii gli occhi, certo di risvegliarmi nel mio letto, e la nebbia scomparve, le ombre si dissolsero. Ma non ero in camera mia, non era notte e neanche l'alba. La luce accecante del sole del primo pomeriggio mi costrinse a socchiudere di nuovo le palpebre. Voltai la testa da un lato, nella direzione da cui proveniva la voce della signora Marta, che continuava a ripetere le stesse due frasi come una litania ossessiva.
«Il mio bambino sta morendo. Al mio bambino manca l'istinto di autoconservazione, vive sull'orlo di un abisso.»
China su di me, una figura femminile mi fissava, in lacrime.
«Il mio cucciolo sta morendo.»
Sobbalzai. Confuso. Incredulo.
«Mamma...» mormorai, rendendomi conto che quella donna di cui non riuscivo a mettere a fuoco il volto non era Marta. «Sto bene, è solo...»
Mi passai una mano sul petto e la ritrassi un istante dopo, inorridito, per rizzarmi a sedere e abbassare lo sguardo sul mio corpo praticamente nudo. Dovevo essermi tolto maglietta e calzoncini nel sonno, per via del caldo asfissiante che quell'anno aveva deciso di non concederci una tregua neanche dopo il tramonto.
Il liquido rosso scuro che mi striava il costato era sangue. Sgorgava lento ma senza sosta da lunghi tagli sottili e si stava raccogliendo in una pozza sempre più larga, impregnando la sabbia. Anzi no, le piastrelle. No. L'asfalto. Tutto mutava rapidamente, trasformandosi in qualcos'altro, confondendomi. La superficie placida del lago all'orizzonte si increspò e si agitò, il cielo sereno si riempì di nubi scure e poi divenne un soffitto di legno verniciato di marrone scuro, da cui scese una pioggia di spighe dorate.«Tu non sei così, Paddy. Rischi di farti troppo male. Guardati cucciolo, stai sanguinando.»
Una fitta atroce mi costrinse a sdraiarmi di nuovo, togliendomi il respiro. Il mio corpo iniziò a tremare, si contrasse violentemente, attraversato da spasmi di dolore alternati a ondate di piacere, e le spighe divennero frecce acuminate che mi trafissero da parte a parte, inchiodandomi al suolo, conficcandosi nei miei organi vitali senza tuttavia uccidermi.
«Mettiti all'ombra, hai la pelle delicata.»
Avevo le braccia tese, allargate verso l'alto, ora, e non ero più sdraiato bensì in posizione eretta.
Inchiodato a due pali incrociati di legno grezzo
«Nostro Signore ha voluto farti provare una parte di quello che ha provato suo figlio inchiodato alla croce.»
la cui superficie scheggiata e irregolare premeva contro la mia schiena indolenzita e bruciante.Abbassai lo sguardo sul mio corpo crocefisso e, attraverso lacrime di rassegnato stupore e sofferenza estrema, alla mia immagine si sovrappose quella del Cristo che campeggiava sulla parete dietro la scrivania del parroco di Sant'Ivano, con il costato che sembrava voler schizzare fuori dal petto e i muscoli tesi in un'agonia che sentivo tutta e che mi sforzavo di accogliere perché così era giusto, così era scritto. Così avrebbe dovuto essere fin dal principio.
Una larga ferita mi attraversava l'addome da un fianco all'altro, il sangue gocciolava lento.
E Stefania mi guardava. Fissava lo squarcio scarlatto con occhi vogliosi, leccandosi le labbra, i capezzoli turgidi e le mani che fremevano nello sforzo di non sfiorare il mio corpo martoriato.
«Sei bellissimo.»
Un'altra fitta atroce, e poi di nuovo dolore e piacere, piacere e dolore, in un'alternanza frenetica e sconvolgente.
Con un sussulto convulso, mi svegliai di nuovo, questa volta per davvero e afferrai l'inalatore dal comodino.
Mentre mi spruzzavo in gola una generosa dose di Ventolin, ebbi l'impressione di scorgere una sagoma maschile, con i capelli chiarissimi e la corporatura esile come il confine tra sogno e realtà in cui ancora fluttuavo, al margine del mio campo visivo.La visione non durò che pochi istanti. Al suo posto, rapidamente, si materializzarono i contorni rassicuranti della mia cameretta, illuminata dalla luce della luna. Il poster degli U2, la scrivania ingombra di libri e fotocopie, la finestra con la tendina arancione appena scossa dalla sottile brezza notturna. Il collage di foto nella cornice a giorno sopra il cassettone, la collezione di macchinine su una mensola. Tutto era come e dove doveva essere, e sapeva di casa, certezze, serenità. L'aria che via via si faceva strada attraverso i miei bronchi sempre meno sofferenti era fresca e pulita. Come lo ero io, mi sarei detto qualche mese dopo ripensando a quello strano sogno davanti allo specchio che rifletteva l'immagine di un Patrick che riconoscevo a stento.
«Va tutto bene?» mi chiese una voce familiare e concreta come la croce azzurra che stringevo tra le dita.
Preso dai miei esercizi di respirazione, non mi ero accorto che anche mio fratello si era svegliato, e che mi aveva raggiunto sul bordo del letto.
«Hai bisogno d'aiuto?»Scossi la testa, ormai del tutto lucido, di nuovo calato nei panni del ragazzo che non voleva allarmare i propri familiari e minimizzava sempre i propri stati d'animo negativi e ogni traccia di malessere fisico.
«Sto bene» risposi. «Avevo un po' di affanno, ma non ho avuto una vera e propria crisi. Ho solo bisogno di bere.»
«Vado a prenderti dell'acqua.»
«No, faccio io.»
«Sicuro?»
«Sto benissimo, Gabri. Lo senti che riesco a parlare e non sto ansimando? Torna a dormire, mi dispiace di averti svegliato.»
«Stavi parlando nel sonno, hai quasi urlato. Sembravi spaventato.»
«Era un incubo» ammisi.
«Cosa hai sognato?» La voce e lo sguardo di Gabriele si riempirono di una nota di apprensione, diversa dalla già esistente preoccupazione per la mia incolumità fisica. Se fossi stato più tranquillo, avrei capito che temeva c'entrasse in qualche modo la brutta esperienza vissuta sette anni prima. A conti fatti era rimasto più traumatizzato di me, e non riusciva a nasconderlo. Da allora la sua vena iperprotettiva si era fatta più marcata, a volte asfissiante.
«Qualcosa di rosso. Sangue, credo, ma non solo. Non me lo ricordo.»
Non stavo mentendo. Le immagini e le sensazioni che tanto mi avevano inquietato, al punto da farmi iperventilare, stavano già svanendo dalla mia memoria, come quasi sempre accadeva dopo un brutto sogno.
Andai in cucina, bevvi mezzo litro d'acqua e tornai a dormire come se niente fosse, per riaprire gli occhi tre o quattro ore dopo, riposato e pieno di energie, pronto ad andare a correre con i compagni dell'Università.
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Giorni fa ho pensato di portare in prima persona alcuni passaggi, facendoveli raccontare da Patrick (che nelle intenzioni iniziali doveva apparire in veste narrante solo nel capitolo zero e nell'epilogo). Se doveste trovare qualche brandello di scrittura in terza persona sfuggito alla trasposizione, non esitate a farmelo notare!Spero che questo espediente - che al momento mi sembra una cosa fighissima ma domani chissà - vi faccia sentire più vicini al protagonista, più partecipi delle sue vicende.
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Patrick
General Fiction*storia fruibile anche senza aver letto il volume precedente* **Sono centosedici capitoli ma non molto lunghi** L'ultima estate del ventesimo secolo si preannuncia nient'affatto noiosa per il ventiduenne Patrick, un tranquillo studente universitario...