106. Un fantasma in cerca di pace

45 9 10
                                    

Per Max e Gabriele non fu facilissimo trovare «la villa rosa con le persiane verdi», dal momento che non ricordavo il nome della via e di «strade secondarie tra Largo Millesimo e la Pineta Sacchetti» ce n'erano parecchie. Una persona in pieno possesso delle proprie facoltà mentali avrebbe chiesto l'indirizzo esatto e l'avrebbe comunicato a chi doveva andarla a prendere ma io quel pomeriggio, come avrete capito, non ero molto lucido (per usare un eufemismo), neanche dopo aver abbandonato Tuchulca sulla scalinata.

Ciò mi diede il tempo di raccontare, senza scendere in descrizioni troppo disturbanti, la molestia che all'improvviso immaginai di aver subito intorno alla metà degli anni Ottanta («L'anno esatto non me lo ricordo, comunque ero ancora alle elementari ed era estate»), un collage di suggestioni, ricordi reali e particolari mutuati dai miei incubi. La mia storia avrebbe potuto essere credibile se non fosse stato per un paio di dettagli: dal 1978 (quindi quando ero poco più che un neonato) all'autunno del 1998, a Villa Gardenia avevano abitato solo l'anziana madre di Teresa e la quasi altrettanto anziana zia. Il piano superiore era praticamente una soffitta, non ancora diviso in stanze. Quindi, a meno che non fossi stato portato nella stanza al pianterreno da cui la zia costretta a letto non usciva mai, e legato e molestato da due arzille vecchiette, una delle quali appunto paralitica, era impossibile le cose fossero andate come affermavo.

I nuovi occupanti della villa, incredibilmente pazienti e calmi nonostante la gravità di ciò di cui stavo accusando i loro familiari o amici, se non proprio Giovanni o Riccardo, mi spiegarono che l'ultima volta che un bambino aveva giocato in cortile con degli amichetti risaliva a quando il loro figlio minore, Lorenzo, classe 1956, era piccolo. La signora Virginia non era solita offrire latte e orzata ai suoi ospiti e se un ragazzino fosse stato segregato per due giorni in una qualunque delle stanze della casa - fosse anche lo sgabuzzino o la soffitta - qualcuno se ne sarebbe accorto.

A quel punto pensai fossero tutti complici, che stessero cercando di confondermi ulteriormente per difendere l'onore della loro bella famigliola di persone modeste ma per bene, e gli dissi che magari ero un po' confuso, magari avevo bevuto Coca Cola e non latte, magari ero stato tenuto in ostaggio per due ore e non due giorni, ma qualcosa doveva essermi accaduto, nella loro casa maledetta. Altrimenti non mi sarei preso la briga di tornarci alla ricerca della chiave che avrebbe aperto la gabbia in cui ero imprigionato. Altrimenti non avrei sentito quelle vibrazioni negative troppo forti per essere imputate soltanto alla squallida - non traumatica - esperienza del dicembre precedente.

Continuai anche all'arrivo di Gabri e Max, certo che mi avrebbero appoggiato (continuare a negare, da parte loro, sarebbe stato un insulto alla mia intelligenza, nonché inutile), ma cambiando la versione iniziale perché i miei ricordi stavano mutando, si erano spostati ai primi anni Novanta e includevano il passaggio alla radio di un pezzo dei Guns - Welcome to the jungle, probabilmente - e un ghiacciolo all'amarena che si era sciolto lasciandomi strisce rosse sul petto nudo.

«C'erano dei ragazzi più grandi che stavano bevendo birra, nel giardino vicino.»

Indicai un punto oltre il muro di cinta, dove c'era solo un piazzale dissestato, con l'asfalto spaccato dalle radici di un grosso albero ma che, allora, doveva essere stato un giardino. Anzi no, un campo.

«Un campo di grano» mi corressi. «Con una radura. Avevamo fatto delle buche per giocare a golf come in un cartone animato che mandavano in tv all'epoca. La signora anziana mi ha chiesto se volessi andare a comprare dei gelati e a me non andava, avevo troppo caldo e mi mancava l'aria, così è andato uno dei bambini con cui stavo giocando. Poi sono entrato in casa e quei tizi più grandi mi hanno seguito. Mi hanno preso a pugni nella pancia. Uno si chiamava Alfredo, uno Marcello... gli altri due non me lo ricordo. Comunque, mi hanno picchiato e mi hanno fatto ingoiare una moneta e poi mi hanno legato a due travi incrociate. C'era anche un prete e quando gli ho chiesto aiuto mi ha risposto che Nostro Signore voleva così e non dovevo prenderla come una punizione, bensì come una prova che sarei stato in grado di superare.»

PatrickDove le storie prendono vita. Scoprilo ora