ELISABETH
Damon e Philip erano andati via da parecchio tempo ormai, in cerca della mia migliore amica. Il nostro era sempre stato un legame speciale, che in molti non riuscivano a comprendere, delle volte era difficile per le persone esterne farlo. Ma a noi non era mai importato a pieno, eravamo i due poli opposti che non esistevano l'uno senza l'altro, eravamo sempre state il sole e la luna, il giorno e la notte. A lei piacevano i girasoli, il bianco e i colori vivaci mentre a me piacevano le rose nere, non quelle classiche che piacevano a mezzo mondo, ma quelle che sembravano morte, e che infondo non lo erano, proprio come me. Mi piacevano il viola e i colori tenui, scuri. Anche fisicamente eravamo due opposti, io ero alta mentre lei era bassa, io ero bionda mentre lei era bruna e infine io ero molto più piatta di lei, mentre lei aveva qualche piccola forma che le donava. Nonostante le diversità però, eravamo più simili di quanto potessero immaginare le persone. Eravamo riservate ma l'una con l'altra, si confidava sempre su ogni cosa, eravamo complici. Quando provò a fumare per la prima volta a quindici anni e sua madre per poco non la sgamò, ci misi un attimo ad inventarmi una scusa per evitarle dei guai. Hope era sempre stata la mia famiglia, quella che non avevo mai avuto, quella che desideravo da tanto, ma che il destino mi aveva tolto. In lei trovai quella famiglia che cercavo, trovai una sorella, una madre, un padre e una confidente. Hope ricopriva da sola tutti quei ruoli importanti che non avevo mai riconosciuto in nessuna persona, era casa, semplicemente questo. Stephanie, la madre di Hope, mi accolse in casa come se fossi una di famiglia, e da quel giorno non mi lasciò più andare e a dire il vero, non volevo che lo facesse. Sapevano la mia storia e non l'avevano mai giudicata, ma compresa e custodita come avrebbero fatto con un tesoro prezioso. Non avevo una famiglia, i miei genitori non volevano saperne di avere una figlia, così mi adottò una signora, Glenda, aveva trentacinque anni quando mi prese con sé e il suo fidanzato trent'otto, convivevano e decisero di adottare una bambina neonata da crescere come se fosse figlia loro.
Le cose non andarono proprio così, Glenda si ammalò quando avevo all'incirca quattro anni e morì poco dopo, Jacob, il suo ragazzo, soffrì di depressione e decise di togliersi la vita dopo tre mesi. Rimasi sola ancora una volta e gli assistenti sociali non sapevano che farne di me, probabilmente, visto che mi lasciarono in un orfanotrofio. Fortunatamente era un posto gradevole, le tutrici erano buffe ma simpatiche e le ragazze con cui condividevo la stanza, erano gentili. Non avevo mai avuto problemi a relazionarmi con le persone, e anche da piccola avevo legato amicizie importanti. Li dentro eravamo l'una la forza dell'altra, non andavamo a scuola, ma c'erano delle insegnanti che ci facevano lezioni private ogni giorno in una stanza che avevano allestito apposta. Fino alla terza media durava, poi avevi l'opportunità di scegliere un liceo e io scelsi di frequentare un istituto tecnico, grafica e comunicazione, perché in quegli anni avevo capito l'importanza di un istante, catturato in una foto. Erano poche le volte che ci concedevano un'uscita, ero di Los Angeles; eppure, non la conoscevo affatto, eravamo pieni di musei, come il Getty Museum, che collezionava dipinti, disegni, sculture, codici miniati, arti decorative europee e fotografie europee, asiatiche, e americane. Mi ero informata quando mi regalarono il mio primo cellulare, un iPhone 4s che all'epoca era il massimo che potevi possedere, e incuriosita cercai informazioni sulla mia città. Un altro esempio potevano essere le spiagge, una californiana che in tredici anni della sua vita, non aveva mai messo piede su una spiaggia era come un italiano che non beveva caffè, era semplicemente assurdo. In ogni caso, con il liceo ebbi l'opportunità di rimediare a tutti quegli anni passati nella struttura e feci tutto quello che non avevo mai fatto: andai al mare, mangiai un gelato, erano severe solo sull'alimentazione e non erano ammessi zuccheri. Visitai tanti di quei musei da avere la nausea e finalmente potevo dire di conoscere le mie radici. Conobbi Hope tra i banchi a scuola, entrambe avevamo paura di ciò che sarebbe successo da quel giorno in poi, ci faceva paura cambiare abitudini, cambiare amicizie. Così diventammo amiche e be' il resto era storia.
Compiuti i diciotto anni andai a lavorare e grazie ai soldi che Glenda mi aveva tenuto da parte sul conto in banca, presi un appartamento e iniziai a lavorare, prima come cassiera in un supermercato, poi grazie al mio professore che riponeva fiducia in me, e alle sue conoscenze, fui affiancata a un registra e non potevo che esserne contenta. Era il mio sogno, diventare una registra e già che ero entrata in quel mondo, era un passo avanti. Il campanello mi allontanò in modo brusco dai miei pensieri, sicuramente non era Damon, era troppo presto. <<Ciao, posso entrare?>>, al contrario di ogni mia aspettativa, era Thomas alla porta, il fratello maggiore di Hope. Avevo una cotta da sempre per quel ragazzo, ma non mi aveva mai considerata fino in fondo. Per lui ero sempre stata l'amica della sorella minore, solo questo, per me era stato la mia prima cotta e non mi era ancora passata, dopo quindici anni. Iniziava ad essere inquietante e odioso soprattutto, non riuscivo a stare tranquillamente con un ragazzo, lui restava sempre nel mio cervello in modo insistente. <<Ehm certo entra pure>>, risposi in imbarazzo, grande e vaccinata eppure mi sentivo a disagio, a distanza di anni, ritrovandomelo fuori la porta. <<Scusa se sono venuto senza preavviso, in effetti Hope non sa che sono qui. Non sapevo dove altro andare e Philip non è mio padre, non ha il dovere di aiutarmi in queste situazioni>>, parlava a raffica, quasi non respirava. Con sé aveva una valigia media, con uno zainetto dove supposi che abbia messo i suoi vestiti e le sue cose, non sembrava intenzionato a restare per qualche giorno soltanto. Indosso aveva una camicia con un gilè sopra blu, una giacca dello stesso colore sopra probabilmente per il freddo eccessivo e sotto indossava dei pantaloni classici bianchi, con delle scarpe classiche.
Sembrava un classico uomo italiano, d'affari con uno stile classico che gli stava così dannatamente bene. <<Non preoccuparti ma dimmi, cosa ci fai qui?>>, mi schiarii la gola per evitare una figuraccia, lo stavo mangiando con chi occhi, dovevo riprendermi. Lo feci accomodare in salotto, dove c'era il divano sul quale mi sedetti. <<Ho divorziato>>, aveva preso posto al mio fianco, non potevo credere alle mie orecchie. Lui l'amava così tanto, si erano sposati qualche anno dopo all'arrivo di Hope a Milano, come potevano divorziare ora? Mi voltai nella sua direzione e vidi la sofferenza nei suoi occhi, come la delusione che faceva parte di lui. <<Mi dispiace, posso fare qualcosa per te?>>, il suo sguardo vacillò per un istante, anche un uomo di trentadue anni poteva soffrire per una donna, non c'era niente di male nel farlo. Soffriva solo chi per quella persona avrebbe fatto di tutto, soffriva solo chi amava sul serio e lui era uno di quelli che lo faceva. <<Avrei bisogno di un abbraccio, puoi abbracciarmi?>>, non mi aspettavo una domanda del genere, ma allargai le braccia per fargli spazio e lui le accolse volentieri. Era come quando da ragazzino gli spezzarono il cuore e io ero lì, per abbracciarlo e consolarlo. Stavo facendo la stessa cosa, con la differenza che adesso eravamo adulti e avevo compreso bene i sentimenti che nutrivo nei suoi confronti. Mi abbracciò forte e lo strinsi ancora di più a me, quando sentii dei singhiozzi. Non avevo mai visto un uomo piangere così per una donna, ma non era meno uomo per aver pianto, anzi, lo era ancor di più per aver trovato il coraggio di sfogarsi, piangendo.

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All is lost.🌚
RomanceSEQUEL DI "NOTHING IS LOST".🌻 Hope ha deciso di cambiare vita nel momento in cui ha scoperto di essere in dolce attesa mentre, il suo grande amore, non aveva alcun ricordo di lei. Si è trasferita in Italia, ha cresciuto i suoi figli come meglio pot...