Chapter 5: I Lego

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[Nei Media "Consume" di Chase Atlantic]

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Chapter 5: I Lego

Theo

Mi svegliai di soprassalto quella mattina, il corpo intrappolato tra l'onirico e la realtà, in bilico tra il sonno e la veglia. La fronte grondava di sudore, e i capelli si erano incollati alle guance, come tentacoli sottili che cercavano di trascinarmi indietro, contro il cuscino. Mi ci vollero alcuni lunghi minuti per riacquistare il pieno controllo del mio respiro, mentre il cuore continuava a battere freneticamente. Era come se avessi sperimentato una febbre alta, una malattia dell'anima che aveva trovato sfogo attraverso il mio corpo, mi capitava anche da bambino, ma la verità è che non mi ci abituavo mai.

Pallino, il mio gatto, mi osservava con occhi curiosi e preoccupati, disteso beato ai piedi del letto. Il suo pellicciotto argentato brillava alla luce del mattino. Si avvicinò lentamente a me, come se avesse intuito che qualcosa non andasse nel suo padrone. Miagolò con tenerezza quando si rese conto che ero sveglio, e iniziando a sfregare le guance sulle mie gambe, voleva dimostrarmi in qualche modo il suo affetto.

«Che c'è, gattaccio?» mormorai con voce roca e assonnata, stendendo una mano verso di lui e accarezzandogli la testolina pelosa, cercando una sorta di consolazione nella sua presenza calda e familiare «Vieni dal tuo papino, dai» lo presi tra le braccia e lo posai delicatamente sul mio stomaco, sentendo le vibrazioni delle sue fusa sotto le dita, una ninnananna rassicurante nel caos di ciò che avevo passato. Non ero riuscito a trovare pace, il mio letto era diventato una sorta di campo di battaglia in cui io ero il soldato meno coraggioso, colui che non sa tenere in mano il fucile senza avere il polso che trema dalla paura. Mi ero voltato e rigirato sulle lenzuola fredde, avevo acceso e spento sigarette con una frequenza quasi compulsiva mentre i pensieri avevano danzato nella mia mente come spettri impertinenti.

Che cosa avevo combinato?

Era curioso, e anche ironico, il fatto che non fossi mai stato l'Akhenaton di nessuno al Wicked, uno dei protagonisti di quel gioco che avevo ideato io stesso. Era stata proprio la mia creatura, quella che avevo partorito in mezzo al caos dell'adolescenza, a tradirmi, a trasformarmi nel fantoccio.

«Signorino, la colazione è pronta, abbiamo apparecchiato in giardino, perché c'è il sole stamattina, come di consueto», udii la voce di Roseline provenire dall'altro lato della mia porta.

«Sì, mi sto vestendo, sarò lì tra poco», risposi.

Nel corso della mia vita, avevo sempre rifiutato il ruolo di faraone. Era stata una scelta mossa da egoismo, un delizioso vizio che non mi aveva mai spinto ad accettare la responsabilità di essere il re di nessuno, tantomeno di avere una regina. Non lo ero stato neanche per Olivia, una donna che avevo amato e che aveva condiviso parte della mia vita. Questo ruolo implicava molte restrizioni: la privazione dalla compagnia di altre donne, la manipolazione dei loro desideri, il controllo assoluto del loro corpo. E anche loro possedevano l'uguale potere sul proprio Re. Tuttavia, non fraintendetemi, il mio rispetto per le donne era profondo, le amavo, e questa era la ragione per cui avevo evitato di approfittare di qualcuna di loro. Non volevo soggiogare né comandare, né tanto meno infliggere sofferenza perché ero una testa di cazzo, un uomo troppo sicuro di sé stesso per cedere a una tale cazzata come quella del Wicked, restare un cagnolino fedele, no, non faceva per me. Preferivo osservare, trarre piacere dallo spettacolo che gli altri mi offrivano, poveri illusi. Trovavo soddisfazione nell'idea che fossero completamente coinvolti in quel teatrino che avevo messo in scena, mentre io ne rimanevo spettatore, e mi bastava così.

Rêverie di Mezzanotte - 𝘽𝙇𝙐𝙀 𝙇𝙊𝙏𝙐𝙎Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora