Chapter 38: I laghi sui crateri di Marte

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[Chemtrails Over the Country Club
by Lana Del Rey]
You're in the wind, I'm in the water
Nobody's son, nobody's daughter
Watching the chemtrails over the country club

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Chapter 38: I laghi sui crateri di Marte

Adele.

Non riuscivo a muovere un muscolo. Volevo chiamare aiuto, ma sapevo che nessuno sarebbe intervenuto: non qui, non in un posto come questo. Nel corridoio non si sentiva anima viva. Ero paralizzata, intrappolata da un senso di colpa che mi teneva i piedi incollati al pavimento come se una corda invisibile li avesse legati insieme. Mi guardai intorno, ma non c'erano orologi — del resto non ne avevo mai visti al Wicked— non so nemmeno perché cercassi rifugio nel controllare l'ora. Forse perché, osservando il loro litigio, il tempo sembrava rallentare e volevo solo che tutto finisse.

Non avevo mai visto Archibald così, se non quella maledetta notte in cui lo portammo in ospedale. Ora teneva Theodore sotto di sé con una presa feroce, una morsa che ricordava le scene che vedevo da bambina su Animal Planet: il leone che immobilizza la iena e negli occhi non ha alcuna pietà.

Il senso di colpa mi divorava, facendomi sentire lo stomaco sottosopra e il respiro irregolare. La scena davanti ai miei occhi sembrava un incubo da cui non riuscivo a svegliarmi. Il letto ancora disfatto, la camicia di Theodore sul pavimento e, ogni colpo, ogni grido soffocato di dolore, mi penetravano nelle orecchie per arrivare direttamente al cuore, amplificando il tormento che mi stava consumando. Avrei voluto intervenire, fare qualcosa per fermarli, ma le gambe non mi rispondevano. Codarda, sei solo una codarda.

Ero stata io a metterli in quella situazione, a peggiorare le cose tra di loro. Avevo tradito la fiducia di mio fratello in un momento di debolezza. La colpa era un peso insopportabile che mi schiacciava, rendendomi impotente. Non provavo rimorso per aver ceduto al desiderio con Theodore. No, la vera colpa era di non essermi sentita in colpa nemmeno per un istante. Sì, ero stata in imbarazzo quando tutto era finito, ma durante l'atto era sembrato tutto così naturale da farmi dimenticare tutto: il gioco, noi, Archie.

Il mio tormento derivava dal fatto di non aver provato alcun rimorso, ma anzi di aver assaporato ogni istante, e ogni spinta, come una traditrice.

Lottai con tutte le mie forze per rompere le catene invisibili che mi tenevano immobilizzata, ma era come combattere contro la mia stessa ombra. Non riuscivo nemmeno a capire perché Theo non stesse reagendo. Non aveva fatto nemmeno un movimento che potesse suggerire resistenza. Non provava a schivare i colpi né a proteggersi il viso con le mani. Se ne stava lì sotto, come se avesse deciso di diventare il suo sacco da boxe.

Si stava facendo picchiare di proposito? L'idea mi colpì come un pugno allo stomaco, amplificando il senso di colpa che già mi tormentava. Theo, giaceva lì, inerte, come se avesse accettato il suo destino senza combattere. Le sue spalle, una volta così forti, ora si incurvavano sotto i colpi, e i suoi occhi, solitamente pieni di vita, erano spenti, quasi rassegnati.

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