Capitolo 39

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Nevaeh Rose

Ricordo ogni santo giorno della mia infanzia con zia sempre impegnata a sbraitare al telefono con suo marito, perché non trovava giusto che dovesse stare con noi fino al ritorno di mamma e papà e che era compiti dei nostri nonni badare a noi. Ma d'altro canto i nostri nonni vivono a Sarasota ed era un grande stress per loro dover prendere ogni volta l'aereo, anche di notte, quando i nostri genitori partivano all'improvviso.

Così dopo scuola io e mia sorella ci arrampicavamo sull'albero vicino casa nostra e parlare di come avremmo voluto le nostre vite da grandi, mentre facevamo collane con il tarassaco giallo e blu e tutta quell'influenza negativa sé ne andava.
Alex ci accompagnava sempre a raccogliere i fiori colorati, nella casa inabitata in fondo alla strada. Nonostante odiasse i fiori, riuscivamo a coinvolgerlo sotto ricatto.
Restavamo lì fino al tramonto mentre mangiavamo la nostra merenda improvvisata con banane e burro d'arachidi ricoperto di cioccolato fondente per me e Alex e bianco per Maddie.

Ero l'unico momento della giornata in cui ero serena e non sentivo la mancanza di mamma e papà, perché avevo i miei fratelli con me. Il nostro calore familiare eravamo noi tre. La mia casa erano loro.

Finché un giorno siamo cresciuti, con opinioni contrastanti e caratteri diversi non eravamo più noi. Eravamo divisi dal legame che ci ha sempre tenuto uniti.

La famiglia.

Ma con il senno di poi non sapevo che l'avrei ritrovata in tre ragazzi, che stavano cercando anche loro la stessa cosa. Ricordò all'inizio il loro legale era flebile, ma nonostante tutto si sono sempre guardati le spalle l'un l'altro.

«A cosa stai pensando?» I miei pensieri vengono interrotti dalla figura maschile alle mie spalle. Mi sistemo sulla sedia e mi copro con la coperta, che ho rubato dal divano. 
Roteò la testa e sposto lo sguardo su Nate, che mi porge una tazza fumante. L'aroma del caffè mi pizzica le narici e allungo prontamente la mano per prenderla.

«Un po' di cose in generale.» Porto la tazza a livello del mento e arriccio il naso quando il fumo mi riscalda il viso. Nonostante le temperature si stiano alzando, la sera è comunque freddo finché non entra primavera.

Il tatuato si siede al mio fianco con le gambe aperte e i gomiti poggiati sulle ginocchia. L'argento dei suoi anelli attira la luce calda dei lampioni, che illuminano il quartiere residenziale di Chestnut Hill.

«Hai mai pensato di tornare a vivere in Tennessee?» Ricordo di sfuggita una foto appesa nell'ufficio di Bob. Ritraeva un piccolo ragazzino in sella ad un cavallo che sorride all'obiettivo e due ragazzini a terra appoggiati contro il petto del cavallo.
L'ho vista per qualche secondo ma mi è bastato per capire che a quel bambino manca casa.

«Le cose sono ben diverse. Solo perché voglio non significa che posso.» Beve un sorso di caffè, inumidendosi poi le labbra. Una scarica di rabbia si impossessa di me, perché il suo non potere è dovuto da una forza maggiore a cui è intrappolato.

«Che fine ha fatto il 'Faccio quello che cazzo mi pare quando mi pare'?» Citò le sue parole facendolo incazzare maggiormente. «Non rompermi il cazzo con queste minchiate.» Ringhia e si alza. Mi alzo di conseguenza e mi piazzo davanti a lui.

«Sto solo affermando i fatti. Se ti arrabbi è perché ho ragione.» Bevo un altro sorso guardandolo con un sorriso beffardo, che mi contorna il viso.
Nate afferra il mio mento con indice e pollice, costringendomi a sollevarmi sulle punte per cercare di pareggiare la sua altezza.

«Non hai ragione per un cazzo, quindi vedi di finirla perché sai che se mi fai girare i coglio-» Sollevo la mano e metto l'indice sulle sulle labbra per farlo tacere.

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