Capitolo 112: Ch'assolver non si può chi non si pente...

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Il sole era ancora pallido e Giacomo Ronchi si stringeva nel giaccotto per non rabbrividire nell'arietta fresca dell'alba.

La fortuna era dalla sua: Gasparino si era appena affacciato sulla porta secondaria e quindi avrebbe potuto parlargli subito, senza tanti problemi.

"Zio, che ci fate qui?" chiese il ragazzo, bloccandosi sull'uscio nel vedere Giacomo Ronchi avvicinarsi a lui con un sorriso di circostanza.

"Nipote adorato..." prese a dire questi, cercando le parole migliori e fingendosi molto imbarazzato: "Sembra quasi che il destino mi abbia concesso questa occasione..."

Gasparino strizzò gli occhi contro la luce incerta del mattino e disse, incuriosito: "Ditemi, zio, che posso fare per voi...?"

"Ecco, la questione mi mette un po' in difficoltà, ma almeno tra parenti bisogna parlarsi chiaro, giusto?" fece Giacomo, incrociando le braccia sul petto e parlando a voce bassa.

Gasparino si disse concorde e si appoggiò allo stipite della porta: "Non fatemi preoccupare... Ditemi cosa vi angoscia e vedremo di porvi rimedio."

"Ecco, da tempo io e Checco Orsi dobbiamo del danaro al Conte..." ricominciò Ronchi, recitando tanto bene da riuscire anche ad arrossire, come se proprio quelle parole gli pesassero: "E da giorni vogliamo incontrarlo, da soli, si intende, ma con una scusa o un'altra non si lascia avvicinare. Se solo potessimo vederlo in un momento della giornata in cui è solo, tranquillo, di umore un po' più lieto del solito..."

"Ma cosa dovete dirgli?" indagò Gasparino, mentre si arrovellava, pensando a quale fosse il momento della giornata migliore da suggerire allo zio.

"Abbiamo risolto il problema del debito – spiegò subito Giacomo – e sappiamo come restituirgli ogni cosa..."

"E allora perché non glielo fate dire direttamente da Ludovico Orsi durante una seduta in Consiglio?" chiese Gasparino, aggrottando la fronte.

Ronchi, che non si aspettava tutte quelle domande, fu sul punto di perdere la pazienza, ma si trattenne: "Perché sarebbe un motivo di vergogna, per noi, saper che il debito è stato nominato davanti a un intero Consiglio...!"

Gasparino parve comprendere i motivi dello zio e non sospettò nemmeno per un secondo della sua buonafede.

Dopo averci riflettuto un momento, alzò l'indice e fece avvicinare lo zio per sussurrargli nell'orecchio: "Venite dopo l'ora di cena, questa sera. Dopo mangiato il Conte ha preso l'abitudine di ritirarsi nella stanze delle Ninfe. I servitori a quell'ora sono nei locali dei domestici a cenare e la Contessa mette a letto i bambini, quindi nessuno vi disturberà."

"Come faccio a entrare nel palazzo? Dubito che le guardie mi lascerebbero passare, a quell'ora..." fece notare Ronchi, con piglio da cospiratore.

Per fortuna Gasparino non colse il cambiamento di tono dello zio e disse: "State nella piazza, quando sarà il momento io vi farò un segnale e vi farò entrare."

"Grazie, nipote mio." fece Ronchi, allungando le braccia per stringere a sé il ragazzo.

Questi accettò l'abbraccio, ma si sentì in dovere di precisare: "Non potrei far entrare qualcuno a palazzo senza il permesso del Conte. Lo faccio solo perché siete mio zio e voglio aiutarvi a levarvi da un guaio."


"Chi è questo Tommaso Feo di cui tutti parlano?" chiese Lucrezia, mentre lei e le figlie tornavano verso il palazzo, appena in tempo per il pranzo.

Avevano visitato la città, come avevano fatto spesso in quei giorni, e, quando Caterina si era fermata per qualche minuto a parlare con Andrea Bernardi alla sua bottega, Lucrezia e Bianca ne avevano approfittato per mescolarsi tra la gente della strada e origliare qualche pettegolezzo.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo (Parte I)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora