Capitolo 31: Cesare

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Il ventinove luglio di quell'anno anche Sforza Maria perse la vita, in un modo abbastanza misterioso. In realtà si trattò di una polmonite, tuttavia, nel momento stesso in cui Ludovico seppe che suo fratello era morto a Varese Ligure, pensò che qualcuno lo avesse avvelenato. E ovviamente tutti i suoi sospetti si concentrarono sulla cognata, Bona di Savoia, e sugli amici che ella ancora aveva sparsi per la penisola italiana.

Si era, nel frattempo, avvicinato sempre di più ai Medici di Firenze, accordando a Lorenzo molti favori, compreso un appoggio – seppur ancora non palese – nella guerriglia che aveva intrapreso contro gli stati alleati del papa.

Ludovico sapeva che Roma sarebbe stata collegata a Milano per molto tempo, visto che quello sconsiderato di suo fratello Galeazzo Maria aveva dato in sposa una delle sue figlie a uno dei nipoti di Sisto IV, ma sapeva anche che Sisto IV non era eterno, e che, alla sua morte, il legame col Vaticano, probabilmente, sarebbe valso meno di zero.

Quell'autunno, in parte perché convinta da Caterina, che nelle sue lettere sembrava certa della malafede di Cicco Simonetta, un po' perché stremata dal lungo tempo passato barricata nel palazzo di Porta Giovia, Bona di Savoia si mosse per riavvicinarsi a Ludovico.

Per prima cosa, la donna allontanò da corte e dai posti di potere il cancelliere. Lo chiamò nella sua saletta privata e lì gli disse con chiarezza quali erano i suoi sospetti.

Bona, in quei mesi, si era fatta scarna, patita, l'ombra della donna meravigliosa e florida che era stata negli anni addietro. Pure Simonetta era patito, smagrito e preda dei più oscuri incubi.

L'uomo prese la decisione di Bona come una condanna a morte. Quando uscì a passo di marcia dalla saletta privata, tutti i presenti lo sentirono urlare: "A me sarà tagliato il capo, e voi, in processo di tempo, perderete lo Stato!"

Bona, tuttavia, non diede peso alle parole furenti dell'uomo e continuò il suo lento avvicinamento a Ludovico, persona di cui non si era mai fidata, ma dal quale, lo capiva più che bene, ormai dipendeva il suo futuro e quello dei suoi figli.


Il secondo inverno che Caterina passò a Roma fu per lei un vero supplizio. Se l'anno prima aveva apprezzato il clima mite del Vaticano, nel gennaio del 1480 era semplicemente esasperata da quella temperatura mite e quel sole sempre presente.

Sentiva ogni momento di più la mancanza della sua città natale e degli inverni rigidi e prodighi di neve.

Più di una volta aveva chiesto a suo marito – a volte anche direttamente al papa – il permesso di visitare la corte di Milano, anche da sola, se Girolamo non aveva voglia di fare un viaggio tanto impegnativo.

Ovviamente le era sempre stato negato. Sisto IV la stimava, è vero, ma non si fidava ancora abbastanza di lei. Se fosse tornata a Milano, solo Dio sapeva cosa avrebbe potuto fare.

Forse sarebbe scappata per non tornare più a Roma, dando man forte alla madre e ribaltando le sorti del Ducato. O forse avrebbe fatto retro front circa la posizione di Simonetta, rimettendo il cancelliere al suo posto e vanificando le misure prese da suo zio Ludovico. Oppure... Mah...! Chissà che altro avrebbe potuto fare, quel diavolo di donna!

Così Caterina dovette passare l'inverno a immaginare la nebbia e la neve che l'avevano accompagnata per tutta l'infanzia.

Nelle profumate notti romane, sognava di sentire l'aroma un po' secco e pungente della brina e del ghiaccio, sperava quasi di poter guardare di nuovo la sconfinata pianura che si stagliava oltre le finestre del palazzo... Invece ovunque volgeva lo sguardo, vedeva solo palazzi e colli e cose che di milanese non avevano proprio nulla.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo (Parte I)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora