2.9 • Goshin

835 139 35
                                    


È lui a fare la prima mossa: carica dritto verso di me tenendo il coltello "a rovescio", quindi con la punta rivolta verso il basso, come nei videogiochi d'azione. Che fortuna, sicuramente non ha mai impugnato un'arma del genere, è troppo lunga per quella presa e l'unica azione che risulta efficace è un affondo verticale. Starà pensando di sollevare il braccio e colpirmi la spalla sinistra, come deve aver fatto con Giacomo pochi istanti fa. Puntando sull'istinto, ruoto tutto il busto verso sinistra, sfilo il braccio destro dallo zaino e lo sfrutto per direzionare meglio che posso il mio scudo improvvisato, targato Eastpak. Avevo ragione, l'intruso stava mirando dritto dove sto posizionando la massiccia borsa scolastica, ma a questo punto non affonderà il colpo. Si vede troppo che lo zaino è spesso, perciò aspetterà che faccia qualcosa io, e non mi lascerò sfuggire quell'attimo di pausa. 

Si dice che nel Judo il momento migliore per attaccare sia nell'istante di vuoto dell'avversario, cioè quando sta per muoversi per colpire, ma in realtà è ancora fermo.

Come mi aspettavo, rimane in esitazione. Lancio la cartella verso il bastardo e gli colpisco la spalla destra. Nove chili di cultura, stronzo. Non l'ho disarmato, ma è come se non avesse più il coltello: nel lasso di tempo in cui proverà a scostare lo zaino, io sarò già in posizione. 

Abbasso il busto e scatto in avanti, afferrando la parte bassa della sua manica e cominciando a sollevargli il braccio allontanandolo dal tronco. Aderisco con l'intero avambraccio sinistro sul suo petto e gli afferro la gola, spingendo in direzione diagonale. Sento perfettamente che tutto il suo peso si sta spostando sul tallone della gamba sinistra. Piazzo il mio piede destro dietro di lui, e piego la gamba. Il contenitore di libri è ancora sospeso in aria, a separare il mio fianco sinistro dal coltello, quando faccio contatto con l'anca. Comincio a piegare in avanti il busto mentre sollevo la gamba, con cui poi scardino la sua destra da terra, mentre spingo verso il basso. Con la mano gli stringo ulteriormente la carotide: non mi sembra il momento adatto per le prese da allenamento, infatti l'impatto al suolo risultante è durissimo, volutamente non controllato.

"O soto gari", grande falciata esterna. In realtà, una sua variante brutale. Ho sempre odiato questa tecnica, perché è difficile rimanere in equilibrio su una gamba sola e non far cadere male il compagno, ma stavolta non avevo alcuna preoccupazione. Sono atterrato sopra di lui con tutto il corpo teso, pronto a continuare il combattimento a terra. Ma non c'è nessuna contesa da portare avanti: il mio avversario ha gli occhi sbarrati, e non si muove. 

Impallidisco, gli scosto la testa di lato, e vedo che ha un coccio profondamente conficcato nella parte alta della nuca. Probabilmente è morto sul colpo. Mi alzo di riflesso e indietreggio urtando il muro, mentre le mattonelle del pavimento si colorano di rosso. Saranno passati quanti, venti secondi da quando sono entrato? Mi volto verso Giacomo. Ha una ferita alla spalla che non smette di sanguinare ed è sul punto di svenire, avevo visto bene. L'altro uomo si contorce sotto l'amata scrivania di mamma, miracolosamente intatta. Gli pianto un piede nelle palle per assicurarmi che non si muova di lì per un po'. Un gridolino rauco conferma la violenza del colpo.

«Stai giù».

Mi avvicino a Giacomo, sfilo la mia cintura e la stringo intorno al suo braccio, dicendogli di fare pressione. Dove sono mamma e Lucrezia? Torno in piedi e raggiungo con un salto camera dei miei, ma è vuota. Proseguo costeggiando il corridoio fino alla camera della mia sorellina, e spalanco la porta chiusa.

«Lucrezia!»

Non c'è neanche lei. Abbasso per un attimo lo sguardo, e vedo i documenti del mobile sotto la mia scala a chiocciola sparsi sul pavimento. Forse sono scappate di sopra. Salgo le scale in pochi secondi, tre gradini alla volta, e apro con una spallata la porta di camera mia, che non si può chiudere a chiave. A pochi metri da me, mamma stringe in braccio Lucrezia, ed entrambe stanno piangendo.

«State bene? Siete ferite?»

Mamma solleva la testa ma non mi guarda, ha lo sguardo vuoto. Ha l'espressione più straziata di dolore che abbia mai visto. Non singhiozza, ma un fiume di lacrime le riga il viso. Sembra invecchiata di dieci anni.

«Ale! Vieni qui! Andrà tutto bene, qui saremo al sicuro».

Sono entrambe terribilmente sconvolte, a stento le riconosco. Lucrezia non smette di piangere, ed è ancora rossa di febbre. Cerco di confortarle, ma dubito di avere una faccia rassicurante.

«È tutto finito... dobbiamo aiutare Giacomo, perde sangue».

«Come finito? Dov'è Giacomo? Giacomo!»

Lucrezia si stacca da Stella e mi si getta in braccio. Dannazione quant'è calda. Ma sta bene, è con me adesso.

Agata [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora