6.6 • Vezzi in frantumi

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Bene, credo di aver finito. 

Poso la penna e sgranchisco la povera mano indolenzita, che dopo un mese di lontananza dagli esami scolastici sembra essersi già scordata come sfruttare in modo piacevole la calligrafia corsiva; infatti, scorrendo alla svelta il foglio, noto tante piccole macchie d'inchiostro sparse qua e là nel testo. Storco il naso e richiamo all'ordine la colpevole. «Ehi, mano, ascoltami bene. Scrivi dalle elementari, non puoi permetterti di combinare un tale casino solo perché ti ho tenuta lontana dalle biro per una misera trentina di giorni».

Stendo il braccio e stringo lei a pugno, sorridendole in segno di resa. Mantengo però l'espressione placida soltanto un attimo, perché poi realizzo di aver parlato da solo. Un fulmine a ciel sereno, rapido e inaspettato. D'istinto mi irrigidisco mentre il cervello processa lo shock e mi fa ricordare tutte le volte in cui mi sono intrattenuto in conversazioni tanto solitarie quanto inutili, sbattendomi così in faccia questa mia abitudine malsana proprio come si fa con una prova incriminante durante un processo.

"Non ti senti patetico?". Un'ammissione che non rende meno grave il vezzo che porto avanti deliberatamente da anni, quasi con insistenza. Di solito lo trovo comico, eppure in questo momento mi ha disgustato, e non ho nemmeno il tempo di essere pervaso da quell'emozione che subito devo fronteggiare le successive: mi sento sconfortato, in imbarazzo, umiliato.

Cosa c'è di peggio rispetto al parlare da solo, mi chiedo? Vergognarmi di me stesso per averlo fatto, ecco cosa, nonostante sappia che si tratta di un'azione normale e comune, vista la mia indole auto-ironica.

Allora è la mia indole a essere sbagliata? 

Sentirsi inadeguati dopo aver compiuto un gesto che si ritiene di aver accettato come parte del proprio io significa essere instabili, quindi sì, sono sbagliato. Oltretutto ha senso che lo sia, altrimenti non avrei mai preso le decisioni che mi hanno accompagnato negli ultimi mesi: non mi sarei lasciato ammaliare da un mio stesso parto mentale, non mi sarei sentito in colpa tradendo quell'illusione dai capelli rossi e, di certo, non avrei optato per una soluzione drastica come lasciare anche Occhioni Blu.

Proprio io, che fino a poco fa mi beavo del mio costante stato di incertezza, sempre attratto in modo spasmodico dal conflitto interiore, ormai mi sono piegato a compiere scelte serie. Penoso. Tra l'altro, da qualche giorno ho un dubbio che credo sia giunto il momento di togliermi. Poggio le mani sulla tastiera e comincio a digitare una richiesta al motore di ricerca più popolare del web, da cui ottengo subito una risposta lapidaria. "La rimozione sicura delle chiavette USB è superflua se non sono in corso operazioni di lettura o scrittura su di esse. I dati non possono venire cancellati dalla semplice rimozione".

Sbuffo, affondando le dita nella cesta di ricci.

Come temevo, anche quella era solo una finzione, non ho mai davvero rischiato nulla staccando di getto la chiavetta dal PC. Una parte di me lo sapeva già? Oppure ero davvero convinto di star scommettendo il mio prezioso diario ogni giorno, col reale rischio di perdere tutto? Stringo la radice del naso fra le dita e rimango incurvato sulla scrivania del computer, con la lettera manoscritta sotto di me e le lacrime a un millimetro dal precipitarle sopra, rovinando ancor di più lo sforzo inchiostrato dell'ultima mezz'ora. 

Basta, basta. Questa manfrina infantile non risolverà niente, quindi se davvero sento il bisogno di piangere, tanto vale sfogarmi nel letto e sperare di addormentarmi in fretta.

Mi tiro due schiaffetti leggeri per rimettermi in sesto e comincio il giro rituale della stanza per staccare tutte le spine. Via quella del computer, dello stereo e in via eccezionale anche quella dell'aria condizionata, dopotutto l'acquazzone di stamattina ha rinfrescato a sufficienza l'aria stagnante della Firenze in versione estiva, permettendomi di rilassarmi senza il ronzio insistente della ventola esterna.

Agata [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora