6.5 • Se strappi fa meno male

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Si accosta al mio orecchio e sussurra, in modo distorto e metallico: «Sei sulla strada peggiore possibile».

I contorni delle sue mani si sfumano e si mescolano al cielo grigio, addensandosi in linee iridescenti che bruciano a contatto con le mie labbra. Le sue carezze sono dolore puro, stritolano la gola e rapiscono l'ossigeno direttamente dagli alveoli. Sento di non poter più sopportare il peso della sua silhouette accartocciata che mi schiaccia giù, incrinando una a una ogni debole vertebra della mia povera schiena, martellando ciascun nervo, ormai esposto, presente in superficie.

È il peggior attacco di panico mai provato.

«Spostati, cazzo, spostati!» grido, strisciando con foga all'indietro, lontano da quella figura indecifrabile e confusa. Forse la urto. Le mani mi tremano come fossero terremoti, eguagliate in intensità solo dal ritmo cardiaco. Si aggiunge al coro disastrato delle mie membra anche la voce rotta dell'infante nel passeggino, terrorizzato dal mio scatto improvviso. Il piccolo urla e si dispera al posto mio, si dimena fra le occhiate preoccupate dei genitori, cerca un contatto e si inabissa nel petto della madre amorevole, che tenta invano di placare lo spavento con suoni dolci di bocca e movimenti ondulatori delle braccia.

È il suo lamento a riassestarmi i sensi.

L'ombra nera è svanita. Al suo posto vedo Chiara, e sanguina. Un pochino dal labbro inferiore, a causa di un mio riflesso involontario, ma soprattutto dallo sguardo, posso intuirlo. Il rosso sgorga dalle dita soffici, zampilla dalle spalle minute, macchia l'abito troppo leggero per questo vento da pioggia e infine sgocciola dai capelli sciolti. Il suo entusiasmo femminile è colpito a morte, giustiziato da un ragazzo incapace di godersi un momento di tenerezza, da lui interpretato come un'aggressione da cui difendersi.

Allora la dama elegante si alza, chiede scusa ai dintorni, non a me, e torna seduta sul telo da picnic, asciugandosi la ferita con un fazzoletto. Poi afferma, lapidaria: «Ti ringrazio per aver avermi dato corda finora in questa follia. Sapevo che non sarebbe durata».

Schiarisce la voce e sfila dal polso un elastico blu, incastrato fra decine di altri ricordi composti di tessuti e metalli. Lo allarga schiudendo la mano e un po' alla volta ne fa le fondamenta di una coda, distesa appena al di sotto delle scapole. «È così che li lega lei, giusto? Peccato che io li ho mossi e castani». Sorride con un'espressione mesta, si sta prendendo in giro da sola.

È vero, Agata separava con cura il ciuffo biondo dal resto dei capelli, almeno fin quando il colore dorato occupava solo la frangia. «Sì, Agata porta sempre la coda, ma perché me lo chiedi?»

«Sono solo curiosa. Magari è questo gesto da nulla che le permette di amarti? Di sicuro essere come sono io al naturale non basta». Resta composta con torace, gambe e testa, ma le mani si adoperano con furia silenziosa nel rimuovere i fili d'erba al confine fra il lenzuolo su cui è stesa, e me.

«Sai, ci ero quasi cascata stamattina», e via un'altra manciata di trifogli, «Certo, è stato un bacio strano, rabbioso più che passionale, eppure sentivo la tua voglia di me. Di me, soltanto di me, in quel momento. Allo stesso tempo, però, non volevi niente».

La temperatura cala ancora, allontanata dalle folate tipiche di un temporale estivo. Precipita seguendo lo stesso ritmo di Chiara, un pugno di fili verdi per ogni grado celsius, o almeno questo è quanto testimonia la pelle d'oca che si espande a macchia d'olio fra i miei peli sottili. 

Scocciata e allarmata dai nuvoloni, la giovane famiglia fugge verso la città e ci lascia come unici guardiani di un Arno cupo, straordinariamente levigato dal contrasto fra corrente acquosa e aerea. Specchio impassibile di emozioni in guerra. Siamo soli, due puntini rosati in mezzo a un prato soggetto a rapido disboscamento: in tre minuti, Chiara ha riportato alla luce mezzo metro di terreno umido e non proprio profumato, rendendo evidente oltre ogni ragionevole dubbio che sta erigendo un muro. Lei risiede al sicuro accanto alla cesta del pranzo, protetta dal pioppo, mentre io resto disperso tra i flutti delle erbe spontanee e non ancora sradicate, sotto una pioggia acuminata.

Agata [Completa]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora