Capitolo diciassette

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«Qui ci sono le granate e le palette, il disinfettante per spolverare le scrivanie, i guanti se ne hai bisogno e... Mi sembra ci sia tutto.» Illustrò laconicamente l'inserviente anziana che arrancava nelle movenze, reduce di un remoto intervento al femore.

«Hai capito tutto?» Alzò un sopracciglio, scettica riguardo l'attenzione vacillante di Lauren.

La corvina annuì, esaminando l'ambiente un'ultima volta per memorizzare la collocazione degli strumenti. Asia, la signora zoppicante che le aveva mostrato i locali, emise un suono monocorde dubbioso, poi richiuse la porta e le affibbiò il possesso delle chiavi.

«Se hai bisogno mi trovi al terzo piano.» Bofonchiò, massaggiandosi il fianco che a dedurre dalle smorfie aveva preso a molestarla.

Lauren abbozzò il miglior sorriso riconoscente che potesse sfoderare, osservò lo sciancato incedere della minuta donna dai capelli ricci e incolti allontanarsi a piccoli passi. Quando l'ascensore la inghiottì, Lauren prese l'iniziativa ed entrò nello studio dei Cabello. Era deserto a quell'ora della mattina.

Essendo la hall assolata, Lauren introdusse gli auricolari nelle orecchie e attivò la playlist, e iniziò a spazzare il linoleum con la voce di Justin Timberlake che le teneva compagnia.

Dato che il negozio di Vincent non era ancora chiuso definitivamente, Lauren aveva chiesto a Normani una settimana di vacanza in cui avrebbe svolto il periodo di prova all'azienda. La corvina non si era mai presa un giorno di ferie, e viste le aggravanti circostanze, Normani non ebbe niente da obiettare, tantomeno Vincent.

Si destreggiò fra le faccende, togliendo la polvere superficiale che stratificava sulla scrivania delle segretarie, si premurò di pulire anche gli schermi dei computer con un apposito panno. Poi passò agli uffici, dove la nidificazione di lanugine era meno sviluppata, probabilmente perché i servigi degli inservienti erano più assidui negli spazi bazzicati dai capi grossi.

Lauren arricciò il naso e scosse la testa, disapprovando tale solerzia nel tentare di arruffianarsi i pezzi grossi. Forse era tanto critica ed ostile -forse pure esageratamente-perché proveniva da una città in cui aveva compreso che il ceto sociale determinava l'andamento della vita, e non le sembrava giusto che la signorina... Dinah Jane ricevesse ossequi oculati mentre le segretarie convivevano perennemente con gli acri.

Rimirò lo spolverino che brandiva in mano, storse le labbra e pensò di essere letteralmente impazzita. Ma che gliene importava a lei? Comunque, anche se gli affari dell'ufficio non la tangevano minimamente, decise di richiudere la porta e non spolverare nello studio privato della donna. L'avrebbe fatta passare per una svista.

Ora mancava quello di Alesandro, Erik e Camila. Il primo le era stato proibito metterci piedi, sostenendo che il dottor. Cabello non gradisse le visite delle inservienti nel suo fortilizio. Meglio per lei, uno in meno. Il secondo teoricamente avrebbe dovuto pulirlo come gli altri, ma la tentazione di infiltrarsi nello studio di Camila e frugare fra le sue scartoffie era incoercibile.

Aprì cautamente l'uscio, sbirciò all'interno e notando la desolazione racchiusa fra le quattro pareti, sgusciò dentro. Inizialmente camminò con passo felpato, come se qualcuno potesse tenderle una retata da un momento all'altro, poi si avvide dell'assoluta assenza di personale e gironzolò tranquillamente nello studio, con un sorriso malizioso che si espandeva ogni volta che il suo sguardo si poggiava su qualche novità.

La voglia malsana di aprire qualche cassetto e razzolare fra le indiscrezioni di Camila era mordace, ma non osò tanto. Diede una sbirciatina al cumulo di fogli che stagnava sulla scrivania della cubana, alzando degli angoli qua e là per estrapolare informazioni di rei clienti. Le venne anche il pensiero di tentare la combinazione delle parole che componevano la password di Camila, quella del computer, ma desistette quando la porta si aprì senza preavviso.

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