Capitolo cinquantadue

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Era una notte tenue e mogia, il refolo sibilava protestante, frangendosi con inaudita forza contro i precari cartelli pubblicitari (a cui nessuno prestava attenzione perché, in quella zona, era già tanto se riuscivano ad arrivare a fine mese, figuriamoci se potevano permettersi una macchina nuova di zecca con gps incorporato), sparpagliava le rare voci per l'isolato, sferzava i vetri e faceva traballare la roulotte, scuotendola con irrisoria facilità.

Camila si strinse nel cappotto, preparandosi ad affrontare l'algido respiro che soffiava le sue spire per le strade desolate.

«Fermati qui.» La sollecitò Lauren, osservando il maltempo che imperversava fuori.

Camila stava rassettando il bavero, quando rimirò la corvina con aria interdetta e quest'ultima, per tutta risposta, scrollò le spalle. Ormai era diventata quasi un'abitudine che Camila condividesse i suoi spazi, il suo letto; che le svuotasse il contenitore dello zucchero senza mai ricordarsi di riempirlo, che cucinasse paste scotte e indossasse le sue camice quando era troppo svogliata per rivestirsi, ma anche troppo infreddolita per non coprirsi almeno un po'.

«Siamo state insieme tutta la sera...» Abbozzò un sorriso la cubana, depositando una carezza caduca sulla guancia di Lauren «Torno a casa.» Il tono, annesso alla premessa affondata prima, fecero intendere quasi che Camila stava interpretando le pulite intenzioni di Lauren come qualcosa di dovuto.

«Camz, puoi restare, lo sai.» Ribadì, stringendosi maggiormente nelle spalle; un po' perché era inutile doverlo ripetere, un po' perché era imbarazzata dal fatto che lei per prima voleva che la cubana dormisse con lei.

«Certo che lo so.» Sorrise flebilmente Camila, ma imbracciò ugualmente la borsa.

Lo sguardo di Lauren guizzò verso la finestra, posta sopra al tavolo, quando un rumore sordo fendette la superficie vetrata. Dei goccioloni scendevano svelti contro di esso, fracassando i timpani per il rumore inaspettato che ingeneravano all'improvviso.

«Ecco, adesso rimani per forza. Dai, preparo il letto e...» Si distaccò dal ripiano della cucina dove era appoggiata ed estrasse la coperta di lana da un armadietto.

«No, fa niente.» Rispose Camila, azzardando un passo verso la porta «È solo un po' d'acqua.» Fece un gesto con la mano, minimizzando.

Si sforzò anche di sorridere, ma si intuiva chiaramente che la sua espressione apparentemente serena stava solo dissimulando un ineludibile sgomento interiore.

Lauren lasciò cadere la coperta sul letto, sospirò rumorosamente e si voltò verso la cubana. I loro sguardi si incrociarono. Quello di Camila palesava un'inequivocabile bugia, e le sopracciglia, incrinate in una blanda depressione, incorniciavano un chiaro dispiacere.

«Ok, cosa c'è?» Domandò schietta Lauren, portando le braccia conserte.

La corvina odiava, e sottolineo odiava, rimanere intrappolata nel limbo. Era il peggior posto dove avesse abitato in vita sua, sì, peggiore anche della sua scalcinata roulotte che per quanto fuori mano fosse aveva sempre un che di casa.

Il limbo era l'oblio della ragione, il calvario delle certezze e l'inno dei dubbi. Il limbo, quel maledetto posto dove veniamo scaraventati quando qualcuno ci riserve quello sguardo... quella frase... quell'espressione, è lì che si azzera il mondo e tutto attorno è silenzio, perché l'unica confusione che avvertiamo è quella schiacciante e insopportabile dei nostri stessi pensieri. Tutto si azzera, per poi rinascere. I ruoli si invertono: il tutto diventa nulla, e il nulla diventa tutto. È il caos, ma anche l'ordine... È il limbo.

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