Capitolo sessantasei

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«Buongiorno.» L'accolse la polinesiana, stazionata alla macchinetta del caffè, con due bicchieri già pronti fra le mani.

«Mh.» Mugolò laconicamente la cubana in risposta, espropriando uno dei due bicchierini dalla mano dell'amica.

«Ho pensato molto stanotte, e sono arrivata ad una conclusione.» Asserì produttivamente Dinah, indisposta a lasciar correre troppo tempo per prendere una decisione che le guidasse fuori dal dedalo.

«Sentiamo.» Si sforzò di rispondere la cubana, che al mattino non aveva forza nemmeno di tenere gli occhi aperti, figuriamoci di spicciar parola.

Tenne ferma la porta del suo ufficio con la l'unta del piede, permettendo a Dinah di valicare la soglia, poi lasciò che si richiudesse con un tonfo sordo e indolente.

Camila si trascinò verso la sua scrivania, allineò il minimo indispensabile e si sedette sulla poltrona, sprofondando la fronte nella conca delle mani. Dinah prese posto di fronte a lei, già intenta a prendere parola, ma venne interrotta dalla reazione scombinata, ma comunque composta, di Camila.

La cubana, mentre sorreggeva la testa appesantita da sonno arretrato, notò un bigliettino sotto i suoi occhi. Era un pezzo di carta, strappato male e stazzonato. Vi era inscritta una "X" sopra, di colore rosso. Camila afferrò con circospezione l'oggetto, rivolse uno sguardo retorico a Dinah, prima di dispiegarlo.

Vi era una sola parola, anch'essa trascritta con un rossetto rosso, perché le screpolature delle lettere risaltavano l'essenza intrinseca del messaggio: Sangue.

Le venne quasi da ridere. Non c'era niente di comico in tutta quella drastica situazione, ma ironia della sorte, a lei scappava da ridere. Perché quelle minacce, quelle avvisaglie, le aveva viste e riviste durante la sua permanenza allo studio, aveva scavato negli archivi e stanato più volte un metodo per trascinare il colpevole in tribunale e sbatterlo in gattabuia, ma ora era lei a doversi affidare al giudizio altrui, a sperare che qualcuno veicolasse una possibilità di scampo.

Il suo lavoro era un po' come quello di un chirurgo. Entrambe le figure sventravano per scovare e risolvere l'eventuale problema, solo che uno dei due apriva corpi anestetizzati con il proprio bisturi, mentre l'altro sfruttava una penna che frugava fra le glosse inchiostrati di libri polverosi.

E proprio come un diligente chirurgo, un avvocato non poteva operare se il paziente era un conoscente, perché il coinvolgimento emotivo avrebbe inficiato la sua prestazione. Immaginiamoci se il paziente disteso sul lettino era lui stesso, diveniva un'intervento surreale.

Quindi, neanche Dinah, se si ammirava la prospettiva da quella fenditura metaforica, era abilitata a "operare" su Camila, ma la cubana non aveva la forza di commissionare qualcun altro di incaricarsi il suo caso. Non ne aveva la forza morale o emotiva.

«Ecco, proprio di questo volevo parlarti.» Annuì flebilmente la polinesiana mentre leggeva il biglietto intimidatorio che Lucy acca appositamente recapitato nel suo ufficio.

Il pensiero che la mora avesse trascorso anche solo un attimo fra quelle vergini mura, era raccapricciante. Si sentiva deprivata della sua privacy, espugnata dal suo confortevole nido. Qualcuno, qualcuno con la suola delle scarpe sporche di fango e il sorriso mefistofelico, aveva profanato il suo ufficio. Cazzo, il suo ufficio. Chissà perché aveva sempre pensato che dietro quella porta nessun male potesse raggiungerla, e invece, era tutta un'illusione. Non che prima non lo sapesse, ma viveva nella beata ignoranza perché le dava sollievo potersi rifugiare in un luogo dove ogni avversione era esiliata. E invece ora doveva svegliarsi. Non c'è cosa più faticosa di svegliarsi.

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