Capitolo trentatré

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Alejandro era curvo sulla sua scrivania, la penna sfrecciava veloce sulle pagine e lo sguardo non si deconcentrava mai.

Stava impilando dei moduli di rilevante importanza, doveva terminare di riempirli prima dello scadere della consegna -che era prefissata per le otto di sera- altrimenti due dei suoi clienti ne avrebbero sofferto involontariamente le conseguenze.

Ultimamente si stava dedicando assiduamente al caso di Lauren e di un altro assistito che verteva le sue scettiche speranze sull'avvocato. Questi processi richiedevano sempre un'attenzione speciale, perché solitamente si trattava di persone coinvolte sì in un crimine, ma dietro i malfidi tabloid si nascondevano le prove della loro relativa innocenza, e trovarle non era semplice. Per questo Alejandro dedicava maggior tempo alle suddette "cause perse", perché non voleva che mutassero realmente in perdite.

Mentre l'inchiostro sbavava il foglio per la frettolosità con cui la mano di Alejandro palesava la sua devozione alla professione, suonò il telefono. Inizialmente lo ignorò, mandando dopo cinque squilli la chiamata alla segreteria, ma il suo perseguitare non demorse e un'altra telefonata venne inoltrata all'ufficio.

Alejandro sospirò sonoramente, sistemò la montatura degli occhiali sul naso -quelli che usava per scrivere e leggere da vicino- e placò i nervi con assennata serenità, poi artigliò la cornetta.

La chiamata perì dopo mezz'ora, forse qualche minuto in meno, ma poco importa. Alejandro rintracciò subito sua figlia, e chiese alla segreteria appostata alla reception di mandare Lauren nel suo ufficio.

Attese sua figlia e la sua cliente con la giacca discinta, le mani congiunte in grembo, lo sguardo adombrato da un dubbio tenace e le labbra arricciate nell'incertezza.

La prima ad arrivare di Lauren che si accomodò sulla poltroncina, accigliata, chiedendo informazioni inerenti la sua presenza, ma Alejandro le disse con tono neutro che avrebbe dispiegato le ali della conversazione solo quando sarebbe arrivata...

«Che succede?» Camila varcò la soglia senza bussare, avvezza a comportarsi spontaneamente con suo padre, anche se era pure il suo capo.

Lauren si voltò di scatto, trovando la sagoma inaspettata della cubana stagliata sulla porta. Lo sguardo di Camila guizzò nella sua direzione, e quando gli smeraldi maliziosi e impertinenti di Lauren cozzarono con i suoi occhi, la cubana alzò gli occhi al cielo.

Alejandro le fece cenno di entrare e di sedersi, al che anche Camila corrugò la fronte, perplessa. Ma comunque non contravvenne al gesto imperiale del padre e si sedette sulla poltroncina vicino a Lauren.

Alejandro non disse niente per qualche secondo, si limitò a tenere lo sguardo fisso verso il post-it ricolmo di parole fitte e svolazzanti che annerivano il colore celeste.

«Mi ha appena contattato un giornalista.» Staccò l'ala del post-it incollata al ripiano e la attaccò sotto lo sguardo di Lauren. Camila si sporse leggermente per sbirciare, ma la scrittura era troppo pressata per poter discernere qualcosa. «Vorrebbe intervistarti, Lauren.» Tagliò corto Alejandro; non si era mai servito di convenevoli ridondanti per aggirare un argomento, preferiva andare dritto al punto.

«Perché?» Domandò la corvina con aria austera, elidendo il sorriso salace che l'aveva contraddistinta precedentemente.

Anche Camila, comunque, si impensierì e rivolse lo sguardo verso il padre, muovendo un flebile cenno con la testa per spronarlo a disquisire riguardo l'arcano.

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