CAPITOLO 5

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ANGEL - 15 Ottobre 1980

È passato poco più di un mese da quel pomeriggio e la vita pare essere tornata quella di prima. Da quindici giorni ho iniziato a lavorare nell'ufficio di Albert Carter e devo dire che le dicerie sul suo conto sono completamente infondate. Non è affatto il provolone che tutti dicono, anzi. È molto gentile, paziente e disponibile nell'insegnarmi tutto quello che serve per il mio impiego. Non nego che è un bellissimo uomo: alto, con i capelli neri come la pece, occhi castani, profondi e accattivanti, e un fisico atletico. Molte donne sbavano dietro alla sua figura, ma non io. Il mio Jack è perfetto così com'è e non ha nulla da invidiargli. «Angel, devo andare a una riunione. Se qualcuno dovesse cercarmi digli pure che lo richiamerò al mio rientro, okay?»

«Certo, Albert.»

La mattinata scorre rapida e piuttosto impegnativa. È la prima volta che rimango sola in ufficio e ovviamente, quando il boss è fuori sede, succede sempre il finimondo. Ho persino perso il conto delle telefonate ricevute! Ma proprio oggi dovevano avere tutti bisogno di lui? Senza accorgermene arriva l'ora di pranzo. Dal momento che la mia pausa dura circa un'ora, decido di andare a prendere qualcosa di gustoso al bar di Samuel.

«Bellezza!» esclama suo padre non appena mi vede entrare. «Buongiorno. Come andiamo, Tom?» gli domando gentilmente.

È un uomo molto affascinante, sulla cinquantina, e da circa trent'anni gestisce il "Coffee&Wine Bar", il locale più frequentato dai miei concittadini. Da quando è diventato nonno ha proposto a Sam di aiutarlo nella gestione dell'attività. "Voglio potermi divertire con i miei nipotini" ha ribadito, e il figlio non ha esitato un istante a lasciare il suo impiego in banca per buttarsi a capofitto in questa nuova avventura. Con il suo arrivo gli affari hanno subìto un incremento notevole, e il merito è tutto di Madre Natura. Le donne sbavano dietro al suo sguardo sexy e al corpo atletico.

«Angel!» esclama Sam, facendo capolino dal ripostiglio dove tengono le scorte del bar. «Ciao bel barista. Ti vedo indaffarato o sbaglio?»

«Sono distrutto. È da questa mattina che il vecchio mi sta sfruttando a dovere» sbuffa, fulminando il povero Tom con lo sguardo. «Come osi darmi del vecchio, ragazzino!» lo rimprovera il padre, e io non posso che sorridere. «Mi permetto, cazzo! Sono ore che sposto casse di acqua, birra e liquori. Finirò prima di sera?»

«Samuel Spencer, che modi sono! Quante volte ti ho detto di non parlare in quel modo davanti alle belle signorine?» Sono seduta sullo sgabello, davanti al bancone, in preda ai crampi. È esilarante vederli battibeccare. «Disse colui che mi insegnò a dire cazzo ancor prima di mamma.» Trattenersi è praticamente impossibile. Rido di gusto, come non mi succedeva da tempo. «Scusalo Angel, non sa proprio quello che dice.» Il tentativo di giustificarsi da parte di Tom è vano e l'ulteriore rossore comparso sulle sue guance non gli è d'aiuto. «Tranquillo, farò finta di non aver sentito nulla, okay?» bisbiglio. «Grazie, se lo viene a sapere mia moglie... Sono cazzi amari» mormora a sua volta, così solo io posso sentirlo. Come si dice in questi casi? Ah sì, le ultime parole famose.

Mi gusto il mio ottimo sandwich in santa pace e poco prima delle quattordici faccio rientro in ufficio. Non voglio tardare, non dopo le continue gentilezze concessemi da Albert; gentilezze che non hanno nulla a che vedere con il vociferare delle malelingue.

Non lavoro mai di pomeriggio, ma questa settimana mi è stato chiesto di fare qualche ora di straordinario. Purtroppo, la collega che mi sostituisce è ammalata e tornerà solo tra qualche giorno. Inoltre, Jack è ancora senza lavoro e qualche soldo in più alla fine del mese non guasterà. Alle sedici in punto raduno le mie cose e corro a prendere il piccolo all'asilo. Dopo aver trascorso un'oretta in compagnia di Jesse e della nuova arrivata Melanie, torniamo a casa. Jack è in cucina, intento a preparare la cena. «Wow! A cosa devo tutto questo?» gli domando sbigottita, indicando la miriade di stoviglie ammassate sul piano di lavoro. «Dobbiamo festeggiare» esordisce, mentre lo osservo dalla testa ai piedi: indossa un vecchio grembiule a fiori di mia madre e una bandana a coprirgli il capo. Anche se è inguardabile, per me è comunque bellissimo. «Che si festeggia?» gli chiedo prima di baciarlo dolcemente sulle labbra. «Rullo di tamburi.... Ho un lavoro!» esclama entusiasta.

Matt (IN REVISIONE)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora