1. Il toro

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Hyade

Quando il toro scende nell'arena non ha più via di scampo, il suo destino è segnato. C'è solo una cosa che gli resta da fare: ballare.

La pallacanestro è un po' come la corrida, è fatta di attacchi possenti e veloci come quelli di un toro, che, anche se ha ridotte possibilità di vincere, non si arrende mai.

Quando si arriva alla faena de muleta, l'ultimo quarto della pallacanestro per intenderci, il toro fa fatica, le sue cariche sono meno decise e le ferite imposte dal torero l'hanno ormai sfiancato. La testa bassa presagisce una morte certa.

Il toro però non cede. Più tempo impiega il torero per finirlo, più il pubblico si spazientisce; nessuno fa il tifo per lui.

E se allo scadere della partita il toro non è ancora morto, allora potrà essere proclamato vincitore, ma sarà comunque troppo ferito per sopravvivere e verrà ucciso dopo la sua vittoria.

Forse avrei dovuto scegliere di giocare in una squadra con il simbolo di un animale destinato a vincere, che non china il capo nemmeno quando è stanco, ma non avrebbe reso allo stesso modo quello che sono sempre stato.

La fragilità e la potenza del toro, durante la corrida, si mischiano e lo rendono una belva. Il suo corpo forte non ha resistenza, vive di attività aerobica e l'acido lattico lo strema ancor prima che possa arrivare alla fine della partita, tanto che si ritrova così a combattere non solo contro il torero, ma anche contro la sua stessa natura.

Eppure, ci sono volte in cui il toro è in grado di lottare tanto maestosamente da ottenere il plauso del pubblico. E quelle poche volte che accade, può permettersi qualcosa che non capita spesso: il lusso di vivere.

Io scendevo in campo per questo.

Come un toro, la vittoria era diventata per me una questione di vita o di morte.

Non si poteva dire lo stesso dei miei ex compagni di squadra: in passato era colpa loro se non avevo mai stretto tra le mani il trofeo che in una qualsiasi altra squadra sarei stato in grado di guadagnarmi, ma da quando la stagione era ricominciata avevo avuto modo di fare conoscenza con dei nuovi tori. Compreso il coach.

I Taurus avevano passato tutto settembre ad allenarsi e da contratto era stato stabilito che io dovessi presentarmi abitualmente e in perfetto orario a ogni allenamento, partita o intervista.

Le regole in campo non mi impedivano di essere ribelle in ogni altro ambito della vita, ma, del resto, avevo ventitré anni, ero il capitano di una delle squadre di pallacanestro più forti d'America e possedevo tutto eccetto un titolo. Che fossi però senza speranze lo aveva capito anche il pubblico da casa, in questo mondo l'unica routine che contava era la mia.

Anche se mi piaceva dare il massimo durante le partite, non ero nato per sottostare agli ordini impartiti da un coach o da un qualsiasi altro essere vivente, per quel che valeva.

Ero perso in un limbo, fatto di continue distrazioni e desideri che non si completavano a vicenda, ma che tutte le notti mi facevano scivolare inevitabilmente dentro il letto di una sconosciuta che si presentava solitamente come una grande fan della squadra e poi finiva per rivelarsi incapace di comprendere la differenza tra un pick and roll e un pick and pop.

Per fortuna che c'erano l'alcol e il fatto che mia madre abitava ancora dall'altra parte del mondo, altrimenti i sensi di colpa mi avrebbero travolto. Che poi... sensi di colpa per cosa?

Non ero di certo l'unico ad approfittarsi della fama, ma chissà per quale ragione ogni volta mi ripromettevo speranzoso che sarebbe stata l'ultima. Eppure, le ultime volte non facevano proprio per me.

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