12. Quello che succede a Las Vegas

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Chloe

Marla aveva preparato una camomilla, perché mio padre era nel pieno di una crisi isterica e non si poteva di certo biasimarlo, dal momento che la squadra stesse rischiando parecchio; ma preparagli una camomilla era come piantare un singolo albero dopo che l'amazzonia fosse andata a fuoco.

La donna dai capelli lunghi e scuri gli fece scivolare la tisana sotto il naso e poi prese ad accarezzargli la spalla allenata e tesa, tentando di rassicurarlo col suo tocco gentile. Mi intenerii a guardarli, perché nonostante stessero sempre a litigare, c'erano comunque l'uno per l'altra nei momenti difficili.

Mio padre però stava troppo male per realizzare che doveva quantomeno tentare di essere gentile e sorseggiare la camomilla che Marla gli aveva preparato con tanta premura; la scansò via con uno sbuffo, incurante del dispiacere che si fece spazio sul volto gentile della donna.

«Quel figlio di puttana...» mormorò, tracciando sul suo telefono lo stesso numero per la millesima volta. La chiamata nemmeno partì, perché la segreteria fu attivata all'istante. «Lo caccio dalla squadra, giuro che lo caccio dalla squadra» mormorò rabbioso, tenendosi i capelli tra le mani.

Non avevo mai visto mio padre tanto disperato, ma comprendevo per la prima volta, da quel suo atteggiamento, che Hyade fosse non solo necessario nella squadra, ma l'anello che legava il resto dei giocatori nella vittoria. Nonostante avesse avuto la brillante idea di andarsene via, senza guardarsi indietro e superando già da un po' senza ritegno il limite delle quarantotto ore concesse da mio padre, restava comunque il miglior giocatore della sua generazione.

I Taurus avevano una partita da giocare e se Hyade non si fosse fatto vivo, non sarebbero stati in grado di vincerla. Guardai ancora mio padre esasperato e sebbene avessi preso già da tempo la decisione di non intromettermi nelle questioni della squadra, quella volta mi fu difficile ignorare il problema che rischiava di far venire un infarto all'uomo che mi aveva donato la vta.

«Chiamo James» mormorai allora decisa, afferrando il cellulare dalla mia tasca e stringendo le spalle nella mia grossa felpa scura, mentre mio padre alzava lo sguardo su di me speranzoso. Compresi allora che fosse arrivato per me il momento di sfruttare l'effetto che avessi su quei ragazzi, se non per aiutare loro stessi, quantomeno per evitare a mio padre di dover sopportare il fallimento per via di uno stronzo.

James rispose immediatamente, ma non gli diedi nemmeno il tempo di salutarmi con la sua solita allegria, perché il mio tono intollerante lo fece bloccare immediatamente. «Dimmi dove è andato» gli ordinai, sperando non facesse troppe storie. Mio padre aveva tentato di chiamare lui e gli altri, ma erano stati tutti omertosi e questo non aveva fatto altro che farmi arrabbiare ulteriormente.

Il suo respiro pesante mi colpì il timpano, «non faccio la spia» fu tutto quello che rispose. Spazientita mi ritrovai a stringere il telefono con così tanta forza da far diventare la pelle sulle mie nocche estremamente tesa.

«James, tra meno di venti ore avete la partita con i Pisces. Se non torna in tempo siete andati. Fuori dai playoff, fuori dal campionato, fuori da tutto. E vi sta bene, voi e la vostra solidarietà. Vi ha abbandonati e voi lo state comprendo!» sbottai, con gli occhi tremanti sulla figura di mio padre che era evidentemente troppo furioso per fare qualsiasi cosa.

«Chloe, sta' tranquilla... Hyade fa così, ma poi torna sempre» mi rassicurò.

«Quindi tu mi dai la certezza che Hyade, adesso, ovunque si trovi abbia il tempo di fare le valigie e tornare qui a Chicago per la partita di domani pomeriggio? Quindi non è andato lontano se gli bastano venti ore, no? Vuol dire che non si presenterà con una sbronza o un hangover credendo di poter giocare?» le parole uscirono a raffica dalla mia bocca, arrabbiate, taglienti, furiose.

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