2. La figlia del coach

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Chloe

Chicago sapeva di foreste. Lunghe boscaglie verdi come l'acqua stagnante del laghetto che papà aveva fatto costruire quando ero bambina.

Mi piaceva vedere i ranocchi saltellare, coi girini che nuotavano nell'acqua liberi come piccoli globuli rossi nel flusso sanguigno.

Chicago dondolava in un tornado di luci fluorescenti, quando la notte si alzava e la luna si impiumava di nuvole fitte e bianche che nascondevano le stelle.

Come le stelle che restavo sempre a guardare di nascosto quando ero bambina, a papà non piaceva che me ne stessi fuori in piena notte ad osservare il cielo, ma prima era diverso. Aveva paura che scomparissi da un momento all'altro, che il buio mi inghiottisse avvolgendomi nel vuoto. Ma prima io ero diversa.

Mi piaceva saltare giù dal balcone, afferrare il ramo della quercia possente ben piantata fuori dalla mia cameretta e poi, quando i piedi nudi si impigliavano nell'erba bagnata, mi sembrava di vivere un'altra vita. La sentivo, la vitalità, la grazia di poter dire che stessi semplicemente esistendo e che questo fosse abbastanza per essere felice.

Sentivo anche papà che sospirava dallo spiraglio della finestra, che di nascosto mi fissava per tutta la notte perché aveva paura che mi accadesse qualcosa. All'inizio si arrabbiava sempre e mi costringeva a tornare in camera a dormire, poi quando aveva capito che non sarei rimasta tanto accondiscendente per tutta la notte si era arreso e aveva semplicemente accettato che, a volte, avevo bisogno di restare sola a guardare le stelle e ad ascoltare i ranocchi gracidare.

Los Angeles invece era dolce e fresca come la frutta estiva, non c'erano le luci scure dei grattacieli di Chicago. A casa mia le nuvole erano fatte d'acqua limpida, mi ero sempre soffermata ad osservarle muoversi seguendo il vento: semplici particelle volatili che fungevano da profumo del mondo.

Il mondo per me si alzava la mattina e si spruzzava un po' di nuvole addosso, come cipria a mantenere il trucco, come talco ad ammorbidire la pelle. Il mondo... che posto magico diventava per me quando la vestaglia da notte si alzava per via della brezza e le cosce mi si riempivano dell'acqua degli irrigatori che papà aveva acceso durante il pomeriggio.

A Los Angeles faceva sempre caldo ed era bello quando la sera rinfrescava la città, perché mi riempiva le ossa di spiragli rumorosi, che fischiavano a far passare l'aria, e mi sentivo più leggera.

Chicago mi faceva sentire come una palla da pallacanestro, strattonata da una parte all'altra del campo, trascinata in un continuo di carichi, azioni e passaggi. Rotonda e vuota, una scatola priva di contenuto, coi peli che mi si intorpidivano ogni volta che guardando la notte non vedevo le stelle, ma solo riflessi spettrali di grattacieli annacquati dallo smog.

Le nuvole erano diventate fumo tossico e la sigaretta da cui il fumo evaporava era il mio corpo, acceso dalla morte che piano piano avanzava. Acceso a perder cenere, mentre sognavo irrigatori d'acqua di Los Angeles a spegnere la vita prima che potesse farmi troppo male.

Alla fine eravamo arrivati ad un filtro consumato, in realtà ci era arrivato papà perché ne aveva trovato uno nel cestino degli spogliatoi del Centro. Si era arrabbiato e la cosa bella di vederlo arrabbiato era che non lo fosse mai con me, nemmeno per sbaglio. Anche quando mi costringeva a tornare in camera le prime volte che volevo restare fuori a guardare le stelle, alla fine mi sgridava, ma poi non si arrabbiava mai veramente.

Eppure con quei ragazzi ci si impegnava a farsi sentire ed era comprensibile: sembravano tutti usciti da famiglie che non li avevano mai rimproverati. Magari l'avevano anche fatto, i loro genitori, ma quando la gloria e la fama d'America ti riempie la testa, le maniere e le regole scivolano un po' via, mischiandosi in comportamenti colorati di presunzione.

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