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ANNE

Mi trovavo fuori, nell'immenso giardino di quella che da quasi due mesi era diventata la mia casa, la mia prigione.
Passavo tutta la mia giornata qui fuori e se avessi potuto ci avrei passato anche la notte. Avrei preferito sopportare il freddo e gli insetti piuttosto che passarla nel letto con lui.

Qui fuori a volte mi sembrava di essere di nuovo libera, magari nei prati immensi della collina verde dove vivevo. Socchiudevo gli occhi e con i raggi non più troppo caldi che battevano sulla mia pelle immaginavo di essere nel giardino della mia vera casa a Roma, oppure di uscire dalla mia dimora pronta per andare alla mia scuola e trasmettere la mia passione a tante ragazze e ragazzi. O ancora di passare in officina ed essere accolta da Coop con il suo solito lancio di attrezzi contro la mia porta.

Ogni volta che i miei pensieri correvano a lui non riuscivo a non piangere; ormai mi ero arresa al fatto che lui fosse davvero morto altrimenti sapevo che a quest'ora mi avrebbe già ritrovata. Ma quello che mi toglieva il respiro era il fatto che era morto per colpa mia, per proteggermi, ancora una volta.
A quanto pareva tutte le persone che mi proteggevano finivano con il morire: prima i miei genitori e poi Coop. Non contattando Fabrizio forse sarei riuscita a salvare almeno lui.

Stavo raccogliendo dei fiori quando una mano sulla spalla mi fece sobbalzare, facendo scivolare i piccoli bulbi dalle mie mani. Mi voltai e ritrovai di fronte a me Erkan, il mio carceriere. I suoi occhi di ghiaccio mi facevano venire i brividi ogni volta che li incontravo.

"Günaydın." Mi salutò, prima di unire la sua bocca con la mia. Ogni volta cercavo di immaginare che davanti a me , che a baciarmi, che a toccarmi, ci fosse qualcun altro, un uomo buono, gentile, bravo. 

Erkan ed io ci toglievamo circa vent'anni; era un uomo abbastanza bello, molto carismatico ma di certo nella mia vecchia vita, per quanto affascinante, non mi sarei mai innamorata di un uomo come lui. Di certo non lo ero nemmeno ora.

In questi due mesi avevo capito che più ero accondiscendente, più mi dimostravo amorevole, più mi facevo andare bene le cose, più c'era la possibilità che venissi trattata quasi come una donna, che come un giocattolo.

Agli inizi avevo avuto paura di non farcela. A volte non sapevo dire se era più forte il dolore fisico o quello psicologico.
Ero ferita, spezzata, in tutti i modi possibili.
Con molta difficoltà avevo represso il mio carattere, il mio battermi per qualunque cosa ma ne andava della mia vita.

Si staccò da me e mi girò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, cercando il mio sguardo. "Come stai?" Mi chiese ora in inglese, dato che non spiccicava una sola parola di italiano, come se la situazione migliorasse. A momenti sapevo meglio il turco dell'inglese.
Mi sforzai di accennare ad un piccolo sorriso, cercando di non pensare a quanto mi doleva il corpo. "Bene... tu?" Mormorai, imponendomi di guardarlo negli occhi.

Da quello che capii, mi disse che era stata una giornata molto difficile al lavoro. Sempre da quello che avevo capito in questi mesi, lui era un trafficante di armi in continua lotta per ottenere il primato sul mercato europeo.

"Devo farti vedere una cosa." Disse di punto in bianco, afferrando la mia mano e calpestando i fiori che avevo raccolto. Mentre mi conduceva nell'enorme villa a quattro piani mi voltai ad osservare quei fiori, sentendomi proprio come loro.

Salimmo gli scalini, diretti verso il suo studio. La paura non faceva altro che aumentare al pensiero che volesse di nuovo possedermi rudemente come quella mattina prima che uscisse di casa, così come il giorno precedente e quello prima ancora.

Quando fummo all'interno della stanza più piccola della casa, mi lasciò la mano, guardandomi con gli occhi che luccicavano. Sembravano diversi però da come mi guardava poco prima di impossessarsi del mio corpo; di solito mi guardava come se io fossi un inutile insetto, finito nel suo campo visivo e pronto ad ammazzarmi.

𝗦𝗔𝗕𝗕𝗜𝗘 𝗠𝗢𝗕𝗜𝗟𝗜 {𝙲𝚊𝚗𝚎𝚖}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora