12.

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CAN

"E non sarà l'ultima volta." La sfidai con lo sguardo a rispondermi. Mi piaceva questa sua grinta, anche se non lo avrei mai ammesso.
Ciò che mi divertiva ancora di più erano le sue espressioni.

Si morse il labbro e continuò a sostenere i miei occhi. "Di grazia, cosa dovrei fare io qui dentro?" Chiese, cambiando argomento, appoggiandosi allo schienale e afferrando i braccioli della sedia tra le mani.

A quanto sembrava non le piaceva che qualcuno le facesse notare quando si contraddiceva.
Alzai le spalle. "Beh leggi, nuota, dormi..." Lasciai la frase in sospeso, pronto a vedere il cambio di espressione che avrebbe fatto appena l'avessi proseguita. "Oppure puoi cambiarmi le ruote della macchina o, ancora meglio, accogliermi con uno spogliarello ogni volta che entro in casa." Aggiunsi, mordendomi il pizzetto.

Infatti da arrabbiata passò ad incazzata nera. Allah se mi divertivo!

Dovevo ammettere però che era molto brava a nascondere quello che provava o per lo meno a non esplodere. In questi mesi con Erkan doveva esserle stata molto d'aiuto questa caratteristica.

Non proferì parola e portò lo sguardo sulla piscina.
Non sembrava neanche troppo stupita dal fatto che io sapessi quali erano i suoi lavoretti quando era ancora una donna libera.

Finii il mio tè, continuando ad osservarla. "Ah dimenticavo. Sei mia prigioniera ora e quindi sei mia, di conseguenza, ogni volta che io vorrò o ti dirò che ti voglio, tu mi raggiungerai. Tamam?"

Si voltò di scatto, trucidandomi con lo sguardo. "Primo, ribadisco, non sono un cane quindi non farò proprio un bel niente. Secondo, insultami quanto vuoi, ciò che dici mi entra da un'orecchio e mi esce dall'altro, ma non ti azzardare ad insultare mia madre, chiaro?" Sibilò, riportando i suoi occhi color nocciola nei miei.

Sua madre?! E chi l'aveva nominata? E poi era una cosa che proprio non facevo, non mi sarei mai permesso di insultare i genitori di nessuno. Per noi turchi, o almeno per la gran parte con cui avevo avuto a che fare, i genitori erano quasi sacri ed era un vero disonore mancargli di rispetto, sia ai propri che a quelli degli altri.

Facendo due calcoli capii che probabilmente il nostro "va bene" per la lingua italiana poteva sembrare un insulto.
"Tamam, significa va bene o d'accordo e simili." Puntualizzai, accarezzandomi la barba.

Sembrò rilassarsi per una frazione di secondo. Da quello che sapevo i suoi genitori erano morti e da quello che avevo capito ora, era particolarmente legata al ricordo della madre.

Spinsi all'indietro la sedia, alzandomi. "Vado al lavoro. Ci vediamo questa sera." Dissi, sistemandomi la fasciatura mentre lasciavo la terrazza con le mie pietre tra le mani.
Faceva ancora un po' male ma per fortuna il proiettile era fuoriuscito ed era passato abbastanza lontano dal cuore o da qualsiasi vena o arteria. Il nostro dottore aveva fatto un lavoro eccezionale. Ah già! Quasi dimenticavo.

Feci marcia indietro sui miei passi, trovandola uguale a come l'avevo lasciata. "In mattinata passerà il dottore per visitarti e controllare che tu non ti sia presa nulla." La informai, facendola sobbalzare pensando che fossi già uscito.

Vidi che fece per dire qualcosa ma la bloccai. "Lo faccio per me, non per te. Voglio essere sicuro che tu non ti sia presa nessuna malattia venerea dal tuo precedente carceriere, altrimenti ci sarebbe il rischio che la prenda anche io. Buona giornata." Conclusi, dirigendomi di nuovo verso l'ingresso.
Prima di abbandonare il salone mi voltai verso le grandi portefinestre, per vedere la sua faccia. Aveva appoggiato le braccia sul tavolo e contemplava la fetta di pane che aveva messo timidamente nel suo piatto. Tutto d'un tratto spinse rabbiosamente il povero piatto al centro della tavola, per portarsi poi le mani tra i capelli.

𝗦𝗔𝗕𝗕𝗜𝗘 𝗠𝗢𝗕𝗜𝗟𝗜 {𝙲𝚊𝚗𝚎𝚖}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora