Capitolo 1

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Passo le dita tra i miei arruffati capelli corvini cercando di renderli perlomeno presentabili, mentre aspetto che la Padrona arrivi per l'ispezione del dormitorio.
Sempre che "dormitorio" sia una parola adeguata per descrivere un tugurio cadente e gelido, dal pavimento lercio in terra battuta e dai pagliericci marci e umidi. Insomma, il luogo dove ognuno desidererebbe trascorrere la propria infanzia, se non l'intera vita.
Io odio questo posto. Ma è tutto ciò che ho. Non ho casa né famiglia. Non ho un passato. L'unica cosa che davvero mi appartiene è il mio nome, Kyera, che significa "scura", anche se tutti mi chiamano più semplicemente "Corvo". Non credo che abbiate bisogno che vi spieghi il perché.
La sagoma scheletrica della padrona compare minacciosa sulla soglia.
Senza che lei dica una parola, tutti noi orfani ci alziamo in piedi davanti ai nostri giacigli. Lei ci scruta uno a uno con il suo sguardo spietato alla ricerca di evidenti segni di malattia o debolezza.
Nessuno di noi è il ritratto della salute, ma ci sono coloro che, soprattutto tra i bambini più piccoli, a stento riescono a camminare e a parlare. Quelli troppo malati o che dopo un dato lasso di tempo non sono ancora guariti vengono buttati fuori.
Qui non c'è posto per chi non riesce a lavorare. E chi perde il proprio, raramente sopravvive nel mondo esterno. Nessuno di questi tempi ha i mezzi per accogliere ulteriori bocche da sfamare, chi viene scacciato deve sopravvivere al freddo e all'inverno con le sue sole forze, così come chi raggiunge la maggiore età. Il nostro è un mondo spietato, almeno per ciò che ne sappiamo qui. La neve cade per sei mesi l'anno, e il sole raramente si mostra nei restanti. La terra sembra aver esaurito i suoi frutti, piante e animali sono allo stremo, la siccità e il gelo impediscono alla vita di fiorire. Le epidemie si propagano. E la situazione è la stessa da almeno undici anni, cioè da quando si presume che io sia nata. Là fuori non c'è nessuno che possa fare qualcosa per risolvere tutti questi problemi. Regna l'anarchia più assoluta da ormai mezzo secolo, viscidi despoti si susseguono sul trono, ma nessuno che sia capace di unire il popolo e gli eserciti, uno per ogni regione del paese.
Queste cose mi sono state raccontate da Dyre, la serva della padrona, prima che venisse licenziata perché troppo vecchia, debole e costosa da mantenere. Non ne abbiamo saputo più nulla. Con lei se n'era andato l'unico briciolo di umanità in un luogo crudele, la nostra unica via di fuga e finestra sul mondo.
La Padrona mi stringe il volto tra le dita adunche.
"Ti ho fatto una domanda!" Sibila.
Impallidisco. Ero così presa dai miei pensieri che nemmeno me ne ero accorta. Stringo i denti e resto muta, mentre lei mi conficca sempre di più le unghie nella carne.
"Hai rubato tu dalla dispensa del pane, piccola pulciosa?"
"N-no" le rispondo balbettando.
Non l'ho convinta. Non sono capace a mentire. Ma la piccola Hannele non ha avuto la sua razione perché era stata scoperta a piangere per una punizione, così io e Wray ci siamo intrufolati nella dispensa e abbiamo rubato del pane per i più piccoli. Non pensavamo di essere stati scoperti.
Sempre con le unghie della padrona conficcate nella guance, lancio un'occhiataccia di disprezzo a Wray, che che impallidisce e comincia a tremare. Quando si tratta di rubare è bravo, quando invece è il momento di rispondere delle proprie azioni perde la maggior parte della sua spavalderia. Non posso biasimarlo, la Padrona spaventa tutti, me compresa. Distolgo lo sguardo e me ne sto zitta. Sono sicura che Wray stia aspettando soltanto che la padrona se ne vada per tirare un sospiro di sollievo.
Lei continua a fissarmi con aria truce.
"Insulsa e stupida ragazzina!" Un suo schiaffo mi fa perdere l'equilibrio e cado a terra.
"Niente cena per te questa sera!" Mi tira un calcio nelle costole, facendomi gemere, poi si allontana con passo pesante, non senza aver prima sputato sul pavimento.
Aspetto che lei sia uscita per rialzarmi. A quel punto tutti si raccolgono intorno a me. La piccola Hannele ha gli occhi lucidi. Si sente in colpa. La abbraccio e le asciugo le lacrime.
Poi mi dirigo verso la fessura del muro. Tra le due assi della parete della baracca c'è un piccolo spazio che ci consente di guardare all'esterno, oltre che di maledire gli spifferi. Da qui riesco a vedere un piccolo spicchio di mondo.
Il mondo. Il grande e vasto mondo. Tutto ciò che sappiamo su di esso dovrebbe bastarci a farci rinunciare alla fuga. Dovrebbe.

Destino - Il volo del corvoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora