Capitolo 47-Kyera

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Nell'ampia stanza che abbiamo affittato per la notte, tutto tace.

I rumori del piano disotto, dove sono rimasti pochi clienti, giungono ovattati alle mie orecchie e alla mia mente insonnolita. Gli altri dormono già, o almeno così mi sembra. Io, invece, sono in uno stato in bilico tra il sonno e la veglia, stanca morta ma incapace di addormentarmi.

Il fatto è che per la prima volta oggi ho realizzato davvero in che guaio mi trovo. Ho seguito il gruppo per avere protezione, ma ho ricevuto pericoli e perdita.

Ho negato me stessa, la mia identità, in favore di altri e di un ruolo che mi è toccato per caso. E, cosa peggiore, ancora non ho un quadro completo del mio compito, del mio ruolo. Passo le giornate nell'obbedienza e nella solitudine, non conosco ancora realmente coloro che mi accompagnano. Anche Heryann, che tra tutti si è dimostrato il più aperto con me, è uno scrigno di segreti gelosamente custoditi, e ho come l'impressione che abbia perso da tempo la chiave che gli consentirebbe di aprirsi.

Mentre cerco di fare mente locale, scruto nel buio alla ricerca di risposte che, forse, non troverò mai.

Cosa ci facciamo quassù?

Che cosa ci siamo venuti a fare, se il consiglio non ci dà ascolto?

L'unica cosa utile che abbiamo ricavato è un po' di tranquillità, che mi ha anche consentito di allenarmi un po' con la spada. Non muoio dalla voglia di mettere in pratica ciò che ho imparato, a dire il vero, ma in qualche modo devo riuscire a difendermi. Heryann è stato molto gentile a darmi lezioni. Non avrà la stessa bravura e scioltezza di Rajivo, la sua tecnica elegante, ma è stato molto chiaro e soprattutto delicato. A parte qualche leggera botta, non mi sono fatta nulla, almeno nel fisico.

Ma per quanto riguarda lo spirito... era Cailibh, a casa, a lottare con me con la spada. Lo facevamo per gioco, certo, e molto spesso con armi di legno, ma i gesti che ho compiuto oggi mi hanno riportato tutto alla memoria. Le sue risate di pancia, i sorrisi timidi di Eír, le nostre corse nei prati e nei boschi, i nostri pomeriggi tra gli schizzi del fiume.

A volte mi chiedo se li rivedrò ancora. Chissà dove sono, adesso, e che cosa stanno facendo. È da tanto che non riceviamo notizie da sud.

Da troppo tempo.

Questo silenzio non promette affatto bene.

* * *

Comincia ad albeggiare. Oltre gli scuri si intravvede la pallida luce del mattino invernale, che rischiara la città silenziosa. I miei compagni dormono ancora. Dopo un momento di indecisione mi alzo e sgattaiolo fuori, in silenzio. Anche la sala grande dove abbiamo cenato è ancora deserta, ad eccezione della minuta presenza della moglie del locandiere, intenta a accendere il fuoco nel grande camino. Il reticolo di rughe sottili che le ricopre il viso si tende in un sorriso di saluto.

Stringendomi nel mio nuovo mantello pesante, esco a respirare l'aria gelida del mattino coperto di neve. Il freddo pungente mi penetra dolorosamente nei polmoni, ma in compenso mi sveglia definitivamente.

Mi accorgo soltanto ora di non essere sola.

Seduta su una panchina sotto il portico riparato della locanda, c'è Herija. È avvolta in una spessa pelliccia che qualcuno deve averle prestato, perché non gliel'ho mai vista addosso prima.

"Ciao, Kyera" mi saluta, con voce quasi atona.

"Ciao"

Mi siedo accanto a lei, rabbrividendo per il freddo.

"Va tutto bene?" Le chiedo, notando la sua espressione pensierosa.

Lei alza semplicemente le spalle.

"È solo che... boh, mi immaginavo tutto diverso." Mugugna.

"Io invece mi chiedo che cosa ci faccio qui..."

Lei fa una faccia strana come se sapesse qualcosa e non volesse dirmelo.

"Oh, invece io lo so che cosa ci faccio qui. Eccome. Vuoi sapere perché sono venuta?"

Non attende una risposta per continuare, come se desse per scontata la mia curiosità, o semplicemente come se non le importasse il fatto di essere ascoltata o meno.

"È per via di mio padre, sai. Uno troppo all'antica per certi versi, non abbastanza per altri. Ha voluto crescermi esattamente come mio fratello, con buona pace di mia madre. Lei avrebbe preferito che imparassi a ricamare, come si conviene a una fanciulla di buona famiglia, e inorridiva ogni volta che strappavo una gonna correndo nel fango. Anche perché poi lasciavo impronte marroni in tutta la casa, costringendola a pulire tutto di fretta prima che arrivassero eventuali ospiti."

Al pensiero di sua madre, ansiosa e china sul pavimento sporco, Herija ridacchia. Poi perde improvvisamente la sua vena di ironia e torna seria.

"Il punto è che mio padre è davvero fissato con faccende pericolose come l'eroismo e l'onore. Pretende il massimo dai suoi due figli e ha sempre fatto pressione perché fossimo i migliori in tutto. Così, quando ha sentito della rivolta, ci ha praticamente scacciati di casa. Non si aspetta certo che torniamo da falliti..."conclude, lasciando vagare lo sguardo a sud, lontano, come cercando di scrutare tra le paludi della sua terra natia.


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Ciao a tutti! Spero che il capitolo vi sia piaciuto, nonostante il ritmo un po' lento e il fatto che servisse prevalentemente da passaggio. Ma non preoccupatevi: dal prossimo capitolo ne vedrete delle belle!

Nel prossimo capitolo: messaggeri trafelati, accese discussioni, decisioni difficili...


A presto!

Destino - Il volo del corvoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora