15 - Butterfly effect

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                          L'effetto farfalla è la teoria per la quale il battito d'ali di una farfalla sembra in grado di innescare una catena di movimenti tali da provocare un uragano dall'altra parte del mondo.


Avevo sempre avuto un rapporto conflittuale con la fede.

Cresciuta seguendo una rigida educazione cristiana, fortemente voluta dalla mia bisnonna di origini spagnole, avevo passato i primi anni del nostro ritorno a Londra, a sgattaiolare tra i sussurri devoti di una piccola chiesa parrocchiale di Somers Town, inginocchiata, zitta, in attesa.

Ricordavo l'odore dell'incenso che si espandeva come un balsamo purificatore, non appena spingevamo le pesanti porte in legno scuro; la luce timida che riusciva a superare le difese di quelle lastre di vetro colorate del rosone centrale; gli archi che scivolavano sinuosi sulle colonne tortili.

Non pregavo però.

Lo trovavo sciocco e vagamente inopportuno: con che coraggio ci presentavamo dinanzi a quell'altare sciorinando lodi e preghiere, per chiedere qualcosa in cambio? Perché era quello, ciò che facevamo. Fingevamo che non ci fosse un divario ridicolo tra le nostre parole vuote e ciò a cui aspiravamo, che era sempre qualcosa di infintamente più prezioso: la vita, la salute, un desiderio.

Per tale ragione avevo sempre creduto che la fede fosse un qualcosa per deboli di cuore. Una rassicurazione in cui tutti finivamo per rifugiarci nel nostro intimo, ma che a mente lucida dovevo ricordare essere solo quello: una banale illusione che spingeva per non farci annegare.

E fu ciò che pensai anche quel giorno, mentre osservavo il concitato vagare degli studenti nell'atrio rumoroso della Churchill Accademy: quanto costa all'anima, rinunciare a una rassicurante utopia?

Era la settimana dell'orientamento al college e, non appena il mio piede varcò l'ingresso della scuola, sentii la mia lucidità che veniva fagocitata dall'affanno strozzato che opprimeva i miei compagni di classe.

Avevo vissuto in America per abbastanza tempo, da capire come l'intera cultura d'oltreoceano fosse focalizzata sulla discutibile credenza che bastasse il nome di una buona università per indirizzare la vita verso un percorso di felicità e di benessere che ai miei occhi risultava oltremodo irreale.

Eppure, in quei giorni, tutti gli studenti della Churchill Accademy sembravano essere stati soggiogati da quell'abbaglio che veniva perpetrato da generazioni. Era un'incessante corsa per l'iscrizione al seminario migliore, per conoscere la personalità più influente che la scuola era riuscita ad accaparrarsi, o semplicemente per garantirsi quante più lettere di referenza possibili, al fine di infagottare una domanda d'ammissione già di per sé carica di ampollosità.

Tutta quella frenesia però a me semplicemente scivolava addosso. Avevo ben chiaro che il mio passaggio a Danvers fosse solo temporaneo, forse più prolungato di quanto credessi, certo, ma pur sempre provvisorio. E quella consapevolezza mi permetteva di mantenere un rassicurante distacco da tutto ciò che mi circondava. O, almeno, era ciò che credevo, finché non mi ritrovai al seminario del professor Turner con Alex.

Non riuscii a dissimulare un sorrisino, quando vidi la massa disordinata dei suoi capelli di fronte ai miei occhi, mentre m'infilavo con sollecitudine nell'aula di filosofia, gentilmente concessa dalla signorina Davis per l'intera giornata. Il motivo del mio divertimento era uno soltanto. Ero consapevole che entrambi avessimo scelto quella lezione con un preciso scopo: evitare il resto degli studenti.

Il professor Turner insegnava alla London School of Economics, il che era grandioso sotto un punto di vista formativo, ma di fatto non garantiva alcuna raccomandazione per entrare in uno dei college della Ivy League. O, per lo meno, la scuola quel giorno ospitava personalità ben più illustri, arrivate direttamente da Yale e da Harvard.

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