47 - Mirabelle (II)

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Villa Case generava una strana sensazione conflittuale in me.

Quando quella costruzione squadrata e dalle lunghe vetrate s'inserì nel mio campo visivo, sentii un peso opprimente comprimermi il petto. Quello era lo stesso posto dove mi ero rifugiata un'infinità di volte e dal quale ero scappata in altrettante occasioni. Dove io e Alex avevamo sotterrato l'ascia di guerra, ma anche dove erano emersi numerosi segreti.

Lanciai un'occhiata nella sua direzione. Alex era stato incredibilmente taciturno, da quando avevamo lasciato il parcheggio della Churchill Accademy. La cosa non avrebbe dovuto sorprendermi e forse neanche infastidirmi. Diavolo, era meglio così per entrambi: niente conversazioni imbarazzanti o nuovi tentativi di sistemare le cose. Eppure, una parte di me credeva che lo avrebbe fatto. Che avrebbe cercato qualsiasi appiglio per farmi cambiare idea, ma alla fine si era limitato a indicarmi la sua macchina, con un'espressione torva ma determinata in volto.

Non era la prima volta che litigavamo. Anzi, a dire la verità mi sembrava di non aver fatto altro negli ultimi mesi. Uno di noi due sbagliava e seguivano liti, giorni senza parlare e poi... E poi finivamo sempre per cercarci, in un modo o nell'altro. Avrei dovuto essere abituata a quelle situazioni, quindi. Tuttavia, avevo l'impressione che sotto gli strati di rabbia, di recriminazioni, di delusione, ci fosse qualcosa di diverso. Qualcosa che mi faceva bruciare più velocemente, che mi faceva scattare più velocemente. Non riuscivo a capire cosa fosse, ma non era pura collera. Tutto ciò che sapevo, però, era che la medesima tensione e il medesimo nervosismo s'irradiavano anche da lui.

Lo scricchiolio delle gomme sulla ghiaia superò di poco i miei pensieri, facendomi tornare a concentrare sulla costruzione oltre il parabrezza. Con una manovra abile, Alex parcheggiò la macchina accanto alle aiuole che separavano la piscina dal vialetto principale, ma anche dopo che il motore fu spento rimanemmo fermi per alcuni lunghi istanti.

«Credi che ci sia qualcuno?» chiesi scrutando le vetrate scure. L'ultima cosa di cui avevo bisogno era ritrovarmi in uno scontro tra lui e Richard. Soprattutto se avevamo intenzione di mettere il naso nei documenti della moglie. Soprattutto se Alex non viveva più lì. Mi dovetti mordere la lingua per non aggiungere quell'ulteriore domanda e lasciarlo rispondere, prima di continuare con il mio interrogatorio.

Lui si limitò a scuotere la testa, sganciando la cintura di sicurezza. «Oggi tocca a Christian andare da Alison, e mio padre dovrebbe essere alla sede di Austin, stando ai piani di volo del suo aereo».

In quel frangente, mi chiesi distrattamente quante sedi potessero vantare le Industrie Case, ma forse non era un'informazione che volevo sapere proprio in quel momento.

«Entriamo, allora» mormorai, senza riuscire comunque a togliermi di dosso quel nervosismo che pizzicava i miei nervi.

Scesi dalla vettura e mi strinsi nel maglione, mentre gli ultimi strascichi del tramonto lasciavano il posto a una luce azzurrina e fredda, che si rifletteva tenue sui muri squadrati. Rimasi alle sue spalle, mentre utilizzava il telefono per sbloccare la porta e automaticamente i faretti all'ingresso si accesero, accogliendoci con toni caldi e morbidi, così diversi da quelli che coloravano l'esterno che mi ritrovai a sbattere ripetutamente le palpebre per abituarmi a quella variazione.

Quando riuscii a mettere a fuoco il salone, con i divani immensi e gli impeccabili bouquet di fiori disseminati ovunque, rimasi in attesa di percepire anche solo un suono, o un piccolo rumore che sottolineasse che non fossimo soli. La casa però sembrava vuota, neppure Susy s'intravedeva in cucina.

Susy. Quel nome aveva riportato a galla un ricordo dentro di me: la sua felpa, appoggiata al bordo del letto dove avevo dormito, quando Christian mi aveva portata da loro, solo un paio di giorni prima.

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