30 - Gantham (II)

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Avevo percorso Sherwood Avenue almeno un centinaio di volte da quando vivevo a Danvers. Ogni giorno per andare alla Churchill Accademy, per recarmi al supermercato e persino per raggiungere la villa dei Case. Eppure, quella costruzione dai muri bianchi e dalle grandi vetrate in stile coloniale che ospitava la famiglia del sindaco era sempre rimasta nascosta da quasi venticinque acri di terreno, che sembravano essere stati pensati con il preciso scopo di tenere alla larga i visitatori indesiderati. Proprio la categoria che rappresentavo quel giorno.

Lo chiamavano Ranch del Sole, per differenziarlo dal resto delle case del quartiere. La versione ufficiale trovata su internet sosteneva che fosse perché, sul muro laterale di una delle due costruzioni che componevano la villa, si fosse conservato il disegno di una meridiana con un sole al suo interno. In realtà, io non avevo dubbi sul fatto che non fosse affatto una coincidenza.

Mi fermai per un istante a osservare il paesaggio, prima di riprendere a camminare. Era uno di quei posti che mi ricordava gli assolati campi del sud degli Stati Uniti, con un parco che si estendeva oltre ai comignoli a punta e che mi faceva pensare alle vacanze estive e al sole caldo di fine giugno. Un posto di cui mi sarei potuta innamorare immediatamente insomma, tipico e accogliente. E forse era proprio quella la trappola.

Continuai a farmi strada sul vialetto in terra sterrata, superando un SUV dai vetri oscurati e una decappottabile rossa, mentre il mio cervello aveva ripreso a martellarmi per l'avventatezza delle mie azioni.

Cosa avevo intenzione di dire a quell'uomo? "Ciao, credo di essere tua figlia"?

Sapevo che fosse un pessimo approccio. Era stata solo l'adrenalina del momento a spingermi fino a lì e adesso, a mente lucida, mi sentivo quasi imbarazzata per quel mio colpo di testa.

Forse era per quello, che avevo deciso di prendere l'autobus per raggiungere quella zona di Danvers. In modo da concedermi del tempo per riflettere e tornare sui miei passi, se avessi voluto. Eppure non lo avevo fatto. Realizzai, che neppure per un istante avevo considerato valida l'opzione di mandare tutto a monte, perché ero consapevole di non avere alcun piano di riserva. Dovevo scoprire chi fosse davvero mio padre.

Rimasi per un po' impalata vicino alla staccionata bianca, dove una serie di coccarde blu e rosse erano state intrecciate fino a ricoprire tutta quella recinzione leggera, che delimitava il giardino dai campi ocra coltivati. Era una di quelle giornate tremendamente belle e gelide, dove il vento soffiava implacabile, ma il cielo era talmente terso, che se sollevavi il viso sentivi il sole ardere sulle guance.

Sarei rimasta lì per sempre. Probabilmente, più per non dover affrontare ciò che mi stava aspettando, che per quella giornata meravigliosa. Ma prima che potessi anche solo ipotizzare di battere in ritirata, una figura sbucò dalla porta blu notte che stavo osservando.

«Cassie Reed».

Michael non tentò neppure di fingere di non ricordarsi di me o del mio nome. Si bloccò sulla soglia, con una scatola di cartone tra le mani e la fronte increspata dalla sorpresa. Sembrava talmente incuriosito da me, che per un istante la sua reazione fu solo di attenta analisi. Vidi le sue iridi chiare appropriarsi dei miei tratti in quel modo sfacciato, che potevo tollerare su Alex e su nessun altro. 

Feci un passo indietro, automatico, istintivo. Se fossi stata più lucida, avrei sicuramente capito che la reazione del mio corpo non fosse tanto dovuta allo stupore, quanto alla paura.

Perché Michael Evans era lì?

«Ho sbagliato casa?». Sentii il mio mormorio come attraverso una nebbia, perché ero confusa e scombussolata da quell'incontro inaspettato. E probabilmente se non mi fossi impegnata a sciacquarmi dal viso quell'espressione sorpresa, mi sarei maledetta da sola per la mia l'incapacità di mantenere le emozioni sotto controllo.

NOCTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora