1 - Punto zero

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Fissavo le disequazioni scritte alla lavagna da almeno dieci minuti. Quello era il tempo massimo che la professoressa Cooper ci aveva garantito per ricopiarle sul nostro quaderno e risolverle.

Io però continuavo a fissarle e basta. C'era qualcosa nella matematica che aveva sempre scatenato una repulsione in me. Una sorta di rifiuto. Forse perché, in fondo, nella vita non avevo fatto altro che contare.

Cinquantatré era il numero di Paesi che avevo visitato con James e quattordici i compleanni senza un messaggio da parte di mia madre. Contavo ogni singola cosa. I passi che separavano casa mia dall'ingresso della metropolitana, il numero di aerei che decollavano mentre aspettavo il mio, i musei che visitavamo.

Non avevo mai approfondito quel lato del mio carattere, ma in fondo avevo sempre saputo che era un modo come un altro per tenere sotto controllo qualcosa che di fatto, per sua intrinseca natura, sfuggiva da qualsiasi tentativo di sottomissione.

Le idee di mio padre non conoscevano limiti. Affrontavo ogni giornata con un brivido di incertezza che non mi aveva mai abbandonata del tutto, e i numeri mi davano l'illusione di poter razionalizzare e, in qualche modo, schematizzare i suoi comportamenti, per non trovarmi impreparata.

Ma per l'appunto, quello era: una mera illusione.

Sentivo infatti che la matematica non poteva essere la vera misura del mio mondo. O comunque, non interamente. Potevo forse calcolare la porzione di cuore che abbandonavo in ogni luogo? Conoscevo già la risposta.

Ciò però non aveva fermato quella mia fissazione e, a un certo punto, avevo persino iniziato a contare i giorni che mio padre mi permetteva di vivere nella medesima città. Londra aveva superato qualsiasi mia aspettativa. Duecentosedici. Un numero immenso per una bambina che poi sarebbe stata costretta ad accumulare solamente una manciata di settimane consecutive, invece di mesi interi.

Quel mio approccio razionale, mi aveva permesso, allo stesso tempo, di diventare estremamente riconoscente per ogni passo in avanti che facevamo. Ogni volta che aggiungevo anche solamente un giorno in più, festeggiavo come se fosse la tangibile prova di un cambio di direzione nella mia vita.

Era un comportamento stupido, riuscivo a rendermene conto anche da sola, perché, dopotutto, che valore poteva mai avere un singolo giorno? Risultava ininfluente, come un'unica goccia d'acqua che necessariamente si perde, se disciolta in un oceano di infinite sue simili.

Eppure, ne era bastato uno soltanto, per rendere reale ciò che prima non lo sembrava affatto. Le mie origini, le storie della fondazione, mia madre... era bastato un singolo giorno affinché tutti questi elementi acquisissero un nuovo significato.

Nell'ultimo mese avevo quindi ripreso questa pratica nociva di tenere il conto di ogni cosa. Il motivo principale però era sempre lo stesso: James.

Avevo scoperto cos'era, che mi turbava da settimane. Mio padre sorrideva. Sempre. Continuamente. In un modo lievemente soffocante e a tratti, oserei dire, inquietante

Forse dovevo solamente rassegnarmi all'idea di essere una pessima figlia, dal momento che mi preoccupavo quando vedevo mio padre felice, ma la verità era che non ne ero abituata.

Non era cattiveria la mia, ma sapevo che generalmente dopo mesi di monotonia, iniziavo a leggere i suoi classici segnali di malinconia, che mi facevano capire che eravamo agli sgoccioli anche con quell'avventura. Gli sbuffi continui, le ricerche di nuovi siti archeologici, il modo in cui sondava il mio umore per capire se poteva avanzare qualche nuova proposta. I regali. Decine di ciambelle, pancakes per colazione e gelato dopo ventidue, perché in fondo James era convinto che avessi ancora sei anni e che potesse comprarmi con un budino al cioccolato. E, in alcuni casi, non aveva neppure tutti i torti.

NOCTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora