52 - Il codice (I)

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C'era un tempo, anni addietro, dove il profumo di casa per me era quello che sentivo quando il portellone dell'aeromobile veniva aperto. Era una contraddizione unica, certo, perché quel profumo non era mai lo stesso. Un misto di vegetazione del luogo, densità dell'aria, predisposizione alle correnti ventose. Non ce n'era uno uguale al precedente, eppure la sensazione di caldo o di freddo che limava l'aria condizionata dall'aereo era sempre la stessa. Potevi percepire a pelle quel momento in cui da un ambiente impersonale e quasi asettico, ti ritrovavi catapultato nella vita vera.

Ebbi la stessa sensazione anche quella sera, quando superai il cancello di casa Parker e un refolo d'aria ghiacciata sollevò alcune ciocche che sbucavano dalla giacca che indossavo. Notare che la macchina di Jenna non fosse parcheggiata all'esterno mi fece salire i pochi gradini che dividevano la porta d'ingresso dal cortile con una maggiore leggerezza, nonostante fossi consapevole di non poter più rimandare la chiacchierata con James.

Lo trovai spalmato come al solito sul divano di fronte alla tv. Una camicia di flanella a scacchi, l'immancabile computer appoggiato sulla pancia e un paio di occhiali neri che usava raramente, solo quando voleva far riposare la vista. Credevo che lo avrei trovato nervoso o quantomeno turbato a causa della situazione con le sue ricerche, ma era di mio padre che stavamo parlando: l'ottimismo era il suo forte.

«Ma guardate chi torna a casa ogni tanto» mormorò, abbassando la montatura e strofinando le palpebre. «Sembra quasi un miraggio, ma no... è proprio la mia pesciolina».

Ridacchiai, mentre mi sfilavo le scarpe e le lasciavo all'ingresso. Avanzai a piccoli passi fermandomi solo quando raggiunsi il tappeto.

«Com'è andato il convegno?» gli domandai, prima di sedermi sul bordo del divano.

Lui si fece in là, per creare un po' più di spazio e affondai sui cuscini del divano insieme a tutta la mia ansia.

«Come al solito: un insieme di vecchi bavosi che credono di aver scoperto Atlantide dentro la loro vasca da bagno».

Soffocai un'altra risata. James detestava quella tipologia di convegni dove doveva rimanere seduto per più di quattro ore. Per mio padre era un'indicibile perdita di tempo. Ore intere che avrebbe potuto passare sul campo. «Qua com'è andata?».

Liberai un grosso sospiro, perché sapevo che quella domanda sarebbe arrivata. «Bene, ma... dovremmo parlare nei prossimi giorni, papà». Non aveva più senso mentire a James. Aveva il diritto di conoscere la verità. O una parte della stessa, per lo meno.

Lui drizzò la schiena e aggrottò la fronte fino a far quasi toccare le spesse sopracciglia scure. L'espressione preoccupata era l'unica in grado di fargli dimostrare l'età che aveva.

«È successo qualcosa?» mi chiese, osservandomi più attentamente.

Sotto il suo occhio analitico la mia testa ciondolò per un paio di volte. «Ho fatto una cosa di cui non vado molto fiera» ammisi. Forse più d'una a dire la verità: avevo mentito a lui, avevo usato Lauren, avevo consapevolmente accettato il cognome di Smith... La lista era lunga. «Ma mi giudicheresti tanto male se ammettessi che non ho voglia di parlarne proprio stasera?».

Dirgli del cambio di cognome significava metterlo a conoscenza di tutta la situazione con Smith, o quasi. Per di più avrei dovuto lasciare fuori Lauren, alla quale avevo chiesto più di un consiglio. Ma era successo davvero tanto in quelle ventiquattro ore. Così tanto che mi sentivo la testa leggera e non ero lucida a sufficienza per parlare con lui.

Sempre con gli occhi infossati, lo vidi sollevare una mano. «Dimmi solo una cosa: qualcuno ti ha fatto del male?».

Scossi la testa e il mio sguardo si addolcì: a James interessava solo della mia incolumità.

NOCTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora