32 - Lo stage (II)

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«Questa è la tua postazione».

Vidi un'agenda planare su quell'elegante tavolo in vetro alla mia destra, dove un computer portatile e un porta penne in argento erano già stati posizionati, in attesa del mio arrivo.

Era il mio primo giorno al Ranch del Sole e dopo aver superato i controlli all'ingresso, ero stata condotta in un moderno ufficio dai toni caldi e avvolgenti. Mi sembrava ancora tutto troppo facile. Davvero troppo semplice, pensare di essere stata invitata proprio nel cuore di quell'organizzazione che speravo di distruggere. Ma sapevo di aver avuto la strada spianata solo grazie al nome di mia madre e adesso potevo solo sperare. Sperare di essere all'altezza delle loro aspettative e, soprattutto, delle mie.

Riportai gli occhi sulla ragazza dai tratti orientali di fronte a me, giusto in tempo per vederla sistemare un ciuffo sfuggito dall'austera coda bassa che portava. Immaginavo che, per una donna così bella e giovane, fosse tremendamente difficile essere presa sul serio. Forse era per quello che mi osservava sempre con quell'espressione distaccata e vagamente astiosa.

Avevo scoperto che si chiamasse Kat. O almeno, quello era il diminutivo di un nome russo lunghissimo che non avrei mai provato a pronunciare. Non le avrei dato un ulteriore appiglio per sgridarmi, a maggior ragione dopo lo sguardo seccato che aveva scoccato alle scarpe basse che indossavo. 

«Trovi la tessera per sbloccare il computer nell'agenda. È personale: non lasciarla inserita, se non ti serve, e tienila sempre con te». Accennò con il dito a un porta badge trasparente, a cui aveva attaccato un cordoncino rosso scuro. Lei non lo indossava a dire la verità, ma evitai di farglielo notare. «Ricordati che non puoi collegare niente ai computer aziendali: niente cellulare da ricaricare, niente memorie portatili, niente usb, niente schede SDI. Chiaro?».

Annuii frastornata da quelle informazioni e abbassai lo sguardo sulla scrivania per nascondere il guizzo dei miei occhi, quando aveva citato quei dispositivi. Non capivo se quell'informazione avrebbe potuto rivelarsi un problema per me. Il virus che avrei dovuto installare era caricato proprio su una chiavetta nascosta nella mia borsa, ma dopotutto avrei comunque dovuto farlo in segreto. Quindi forse non sarebbe cambiato nulla, giusto?

«Se hai bisogno di qualcosa, chiedi a me o a Michael, okay?» riprese lei con tono pratico.

A quel nome però, ogni riferimento al piano che avevo in atto sfumò, e mi ritrovai a corrugare la fronte per la sorpresa. Michael avrebbe lavorato con me?

La mia reazione non la lasciò indifferente. Vidi Kat iniziare ad annuire con ampi movimenti e sguardo inflessibile, ancora prima che potessi articolare una qualsiasi domanda.

«Sì, tu e Michael condividerete l'ufficio» confermò, prima di indicare la seconda scrivania. Era un po' più caotica della mia, con un paio di vaschette contenenti fogli sparsi e cartellette colorate. «È stata un'indicazione specifica del sindaco Smith, quindi ti prego di attenerti a quanto deciso».

Annuii, fingendo di non notare l'impazienza della sua voce. Non capivo se il suo astio fosse dovuto alla sua spiccata professionalità, o al fatto che avesse scoperto che Elizabeth era mia madre. Qualsiasi fosse però l'origine di quella tensione, mi sforzai di tenere a mente che avevo bisogno di guadagnarmi la sua fiducia, così mi costrinsi ad articolare un sorriso.

«Tutto chiaro» confermai, appoggiando la mia borsa a una sedia. Poi mi voltai nuovamente nella sua direzione. «Con cosa posso iniziare?».

La linea tesa delle sue labbra si arcuò in un sorrisino. Sembrava che non avesse aspettato altro. «Con questi». Prese un pacco di fogli dalla scrivania di Michael e li appoggiò senza tante cerimonie accanto al portatile. «Sono i dati degli ultimi sondaggi e mi serve tutto: medie, scostamento, errori... Le solite cose insomma. Credi di poterlo fare?» mi chiese con una sottile vena scettica.

NOCTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora