55 - Dove tutto è iniziato (II)

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L'oscurità era una densa macchia d'olio che aveva coperto i miei occhi.

Nel preciso istante in cui Philip mi aveva trascinata fuori da quell'auto, il bosco ci aveva inghiottiti. Ripensai alla prima volta in cui ero  stata al Wenham Lake con Alex. A quel sentiero che mi aveva fatto percorrere, anche se non mi fidavo di lui e del suo senso dell'orientamento. Ripensai alla luce piena che avevamo incontrato alle fine di quel percorso, a come ci eravamo arrampicati sulla roccia ed eravamo usciti dall'oscurità. In quel momento, pregai con tutto il cuore che quella serata andasse allo stesso modo. Che riuscissimo a trovare la luce alla fine di quel tunnel.

La mano di Philip mi strattonò di nuovo, mentre mi costringeva a seguirlo tra gli alberi. Il vento ne sferzava le chiome e s'insinuava nella trama del mio giubbino leggero. Tremavo così tanto che credevo che mi si sarebbero spezzate le ossa da un momento all'altro.

«Philip» tentai, incespicando alle sue spalle. Fango, terra, rovi... L'umidità mi si infilava nel colletto del maglione, strisciando lungo la schiena.

Lui non si fermò e non diede neppure segno di volermi ascoltare. Sentii solamente il rumore di un motore che si spegneva. Altri freni che  stridevano.

«Philip» singhiozzai.

Merda, merda, merda. Perché ci eravamo cacciati in quella situazione? Avrei fatto qualsiasi cosa per tornare indietro e consegnare quei dati. Sarei stata disposta a rimanere con Smith per tutta la mia vita. A stare persino lontana da Alex, pur di saperlo al sicuro. E poi Christian e Caleb...

«Philip...».

«Smettila!» Philip si bloccò all'improvviso e lo travolsi, finendo contro il suo fianco. «Se vai in panico tu, vado in panico io». Ansimava, non me n'ero accorta fino a quel momento. «Non abbiamo tempo da perdere» mormorò  controllando a stento la voce, «e non possiamo fare nulla se torniamo indietro».

Aveva ragione... Aveva ragione da vendere. L'indecisione ci sarebbe solo costata tempo. Tempo che noi non avevamo. Ma lasciare  indietro Alex e gli altri era così sbagliato, che sentivo quella decisione graffiare dentro di me.

«Lo so» ammisi. Mi stavo comportando da stupida. «Dobbiamo raggiungere in fretta quel maledetto rifugio, allora» ordinai con voce incrinata.

Philip annuì. «Riesci a correre?».

Ero così intorpidita dall'ansia che mi sembrava di non sentire più le gambe, ma feci comunque cenno di sì con la testa. «Andiamo».

Ripartimmo, prendendo una specie di sentiero che Philip illuminava con la torcia del telefono. Era l'unico punto del bosco dove i rovi si erano inchinati al passaggio di qualche animale, ma non era esattamente una strada battuta. Grossi rami tranciavano il percorso, le radici nodose degli alberi ci facevano incespicare, e il buio rendeva impossibile scorgerne la fine.

«Ci servirebbe un GPS» ansimai, issandomi su un masso.

«Beh, non lo abbiamo» boccheggiò Philip, seguendomi subito dopo. «Raggiungiamo la cima e verifichiamo se il telefono prende». Si fermò un  attimo, cercando di recuperare il fiato. «Il Wenham  Lake dovrebbe essere più o meno lì» proseguì, indicando un punto a  nord-est. «Il rifugio era su una specie di collinetta, ma non so se abbiamo scelto quella giusta».

Erano indicazioni vaghe, imprecise. Ma non era colpa di Philip. Pensare di  scorgere qualcosa nel buio pesto della notte era da sciocchi ottimisti. Potevamo solo tentare e tentare ancora, finché non avessimo trovato  qualcosa. 

«Quanto...» mi si spezzò la voce e fui costretta a respirare a fondo. «Quanto credi che sia passato da quando siamo partiti?».

«Dieci minuti, dodici al massimo».

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