36 - Tutto (II)

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Ho sempre pensato che la genetica fosse una cosa strana.

Ne avevo avuto la prova, la prima volta, quando vivevo a Parigi e avevo all'incirca otto anni. Io e James avevamo appena terminato la riproduzione di un meraviglioso portasapone origami. Avevamo impiegato una quantità di tempo imbarazzante: ore intere, spalmate su tutta la settimana, quando mio padre rientrava dai corsi in università.

Non so perché mi fossi fissata con l'arte di piegare la carta. Con il senno di poi, forse aveva a che vedere con il rigore, con il controllo. In fondo, mi era sempre piaciuto quando ogni tassello riusciva a incastrarsi, quando seguendo le regole, riuscivo a ottenere ciò che volevo. Magari, mi piaceva semplicemente l'ordine.

A ogni modo, quando finalmente eravamo riusciti nella nostra impresa mi sentivo la bambina più orgogliosa del mondo. Non avevo fatto altro che pensare a quando lo avrei mostrato a Jenna, a quante altre cose avrei potuto creare. E quella foga, quell'ottimismo sfacciato avevano fatto sì che mi sentissi abbastanza fiduciosa da provare a metterci davvero del sapone dentro.

Il liquido aveva impiegato giusto il tempo di colare tra le venature della carta per distruggere tutto, e ricordo che la desolazione dettata dal mio errore mi aveva spinta a urlare e a piangere, prendendomela con me stessa per essere stata così sciocca.

James, invece, aveva riso. Una risata tenera e dolce, per la mia ingenuità. Aveva passato una mano tra i miei capelli, stropicciandoli e dicendomi che ne avremmo potuto costruire un altro. Ricordo che in quel momento mi ero chiesta cosa non andasse in me. Perché non fossi buona come lui, perché al contrario ero sempre così arrabbiata, perché scoppiassi in quel modo... Forse all'epoca, la genetica stava solamente tentando di dirmi qualcosa che non ero pronta per ascoltare.

Asciugai le lacrime, affrettandomi a risalire il vialetto di quella casa che conoscevo fin troppo bene, fino al portico illuminato ad arte. Era sempre quel maledetto impulso... Quella maledetta avventatezza, che mi aveva spinta ad attraversare il centro di Danvers, per dirigermi fino a lì. Eppure, adesso che il mio riflesso si specchiava nelle vetrate scure che inghiottivano il buio della notte, non potevo non chiedermi cosa diamine fossi venuta a fare, alla porta di un ragazzo che non faceva altro che dimenticarsi di me. Quello stesso ragazzo, che non mi aveva cercata neppure una volta dalla sera prima, ma che era la stessa persona per la quale sarei stata disposta a fare qualsiasi cosa. Per cui stavo già sacrificando qualsiasi cosa.

Ho una proposta per te.

Ho una proposta per te, pensaci.

Il respiro mi si spezzò in gola, mentre quelle parole continuavano a rimbombare nella mia testa. Sentivo unicamente questo... questo buco nel mio petto, che aveva iniziato a divorare qualsiasi altro sentimento. Solo desolazione e abbandono. Perché avevamo perso così tanto tempo? Perché eravamo stati così stupidi e così orgogliosi, prima?

Mi sforzai di ricacciare indietro quel fastidioso pizzicore che faceva bruciare i miei occhi e che mi seccava la gola. Non ero lì per quello: non ero lì per piangere, non ero lì per essere consolata una volta ancora. Dovevo solo verificare che stesse bene... Continuavo a ripetermelo nella mia testa, per giustificare l'avventatezza del mio gesto. Tuttavia, sapevo che non fosse quella, l'unica ragione.

Alex diceva ad alta voce tutto ciò che io non riuscivo a pronunciare. Lo avevo pensato quella mattina, mentre cercavo di capire come fossimo passati dal non essere in grado di stare lontani, al litigare in meno di un minuto. Alex riusciva a tirare fuori quelle parole che mi consumavano internamente, quelle parole che graffiavano per uscire, ma che io ero troppo codarda per ammettere. E allora restavano lì, finché non si trasformavano in quella sorta di fuoco, che bruciava dentro di me distruggendo tutto, fin da quando ero piccola.

NOCTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora