18 - Contatto (III)

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Il cuore mi rimbombava nelle orecchie a ogni respiro. Pugnalandomi, stordendomi. Strinsi le palpebre, rabbrividendo talmente forte da sentire l'aria incespicare nella gola. Non volevo svegliarmi. Volevo solamente continuare a dormire e far passare quel mal di testa lancinante.

«Piccola, sai come funziona». Una voce maschile s'intervallava a un fischio irregolare che sembrava giocare con i miei timpani. «Devo controllarti ogni ora» continuò.

Era una voce famigliare ma... non era di James, e neanche di Alex.

E allora perché continuava a disturbarmi? Volevo che se ne andasse, che la smettesse di appiccicare le sue mani sul mio viso, ma non riuscivo proprio a trovare le labbra per dirglielo. Perché non mi lasciava in pace?

«Ti lascerò in pace quando ti sveglierai» ridacchiò piano, mentre un tocco delicato mi costringeva a ruotare il volto.

La voce continuava a insistere e... perché mi leggeva nel pensiero?

«No, piccola, non ti leggo nel pensiero: stai solo farneticando».

Non capivo. I miei pensieri erano annodati in un gomitolo disordinato che non riuscivo a sbrogliare e, ancora una volta, tutto si confuse nella mia mente, perché pensare era semplicemente troppo sfiancante per continuare a provarci.

All'improvviso però, una forte pressione alle palpebre mi costrinse ad aprire gli occhi e un riverbero luminoso mi tranciò le pupille. Vedevo solo luce. Troppa luce. Tanto che cercai di arretrare con il volto, tendendo i muscoli del collo, per sottrarmi a quella tortura.

Perché mi volevano far del male?

Chiusi di nuovo gli occhi, mugugnando qualche parola sconnessa, che si perse sotto all'ennesimo dolore che si scagliò tra le mie tempie. Non volevo più. Non potevo più. Perché non se ne andava?

«Lasciamola dormire».

La seconda voce era più profonda, famigliare, roca.

Alex.

Sentii una mano ruvida accarezzarmi il viso, risalendo dalla guancia allo zigomo. Se non fosse stato per quei colpi che mi martellavano la testa, avrei tanto voluto aprire gli occhi, ma un peso troppo forte mi stava trascinando di nuovo verso il basso. Mi sembrava di annegare.

***

Avevo i brividi.

E la nausea.

E sentivo qualcosa che premeva sul mio fianco.

Aprire gli occhi fu come riemergere gradualmente dalle acque di un lago. La pressione che sentivo spingermi verso il basso a poco a poco diminuiva, mentre riacquistavo il controllo di un muscolo alla volta, un nervo dopo l'altro, fino a quando un tremolio delle palpebre non permise a un bagliore di fare breccia nell'oscurità della mia mente.

Per una manciata di secondi, mi sembrò di non vedere assolutamente nulla. Solo una distesa bianca e brillante. La luce aveva sommerso i miei occhi, mentre i miei sensi gradualmente si dilatavano, facendo esplodere un cumulo di sensazioni indistinte: la testa che rimbombava, i tremori dei miei arti, la pesantezza del mio corpo.

E... Casa Parker.

Non so quanto tempo impiegai per mettere a fuoco quel divano in pelle scura e quelle pareti color panna. Fu però il basso tavolino pieno dei post-it di James, a farmi capire che fossi a casa.

Casa.

Persino con il cervello e con lo stomaco che si contendevano il primato dell'organo più malridotto, non riuscii a non pensare a quanto fosse stata strana quella mia associazione con il salotto dei Parker. Casa.

NOCTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora