22 - Alison

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«New York è una bugia» ammise candidamente. «Alison vive a Boston».

Non capivo cosa stesse cercando di dirmi, e finii per osservarlo con uno sguardo incerto e cauto, quasi impaurita di articolare qualsiasi tipologia di ipotesi.

«Cosa significa?» scandii piano.

Non so come avessi fatto a non prendere in considerazione l'idea che ci fosse qualcosa, riguardo a sua sorella, che lo preoccupasse. Perché non solo era palese nel modo in cui aveva serrato i pugni per nascondere un nervosismo evidente, ma anche perché più volte nei mesi precedenti avevo notato una strana tensione, ogni volta che parlavamo di lei. Era accaduto almeno in un paio di occasioni, da ultimo quando ci eravamo ritrovati sul tetto di casa sua.

Alla mia domanda, per un attimo scorsi un lampo di sorpresa attraversare il volto di Alex. «A Danvers le notizie girano in fretta» commentò amaramente, «credevo che qualcuno ti avesse raccontato la storia della sfortunata famiglia Case».

Mi guardò in cerca di conferma, ma scossi la testa. Nessuno ne aveva avuto modo. Passavo con lui la maggior parte delle mie giornate e, a parte la signora Smith, nessuno degli altri vicini si era presentato da noi con una torta fatta in casa e una buona dose di pettegolezzi.

Per un istante però, ebbi la sensazione che Alex quasi sperasse che io avessi già tutte quelle informazioni che stavano vorticando nella sua testa. Perché, quando realizzò che in realtà non sapessi proprio nulla, il suo sguardo si rabbuiò impercettibilmente, mentre il contorno dei suoi occhi si faceva più scuro.

Scosse la testa e tornò a fissare il pavimento di fronte a sé. «Alison vive a Boston» ripeté, come se dovesse convincersi di ciò che stava per fare, «in un centro di recupero per tossicodipendenti».

Per un attimo, le sue parole rimasero ad aleggiare dense e tangibili in quella stanza, mentre lui rimaneva in silenzio, lasciando che metabolizzassi quella notizia.

Io però in realtà non riuscivo a fare altro che osservarlo. Lo vidi passare una mano tra i capelli, e mi ritrovai a fissare il suo profilo - le labbra piene, la linea dritta del naso, gli occhi corrucciati di un turbamento fin troppo comprensibile – chiedendomi come avessi fatto a non accorgermi di quell'ennesimo problema che stava affrontando.

Avevo la costante sensazione di essere egoista, quando si trattava di Alex. Il centro dei miei pensieri era sempre come mi sentissi io, totalmente cieca a ciò che non mi riguardava personalmente.

Ciò che angosciava me.

Ciò che tormentava me.

Me.

Sempre e solo "me".

Tornai a focalizzarmi sul suo viso, in tempo per vederlo lasciare i capelli con uno scatto secco.

«Alex...» iniziai dispiaciuta. Come se fossi in grado di tradurre quell'insieme di emozioni che sentivo rimescolare il mio stomaco. Come se avessi davvero potuto aiutarlo, con le mie parole.

Ma credo che lui non si aspettasse una precisa reazione da me. Anzi, avevo la sensazione che fosse troppo concentrato a tenere sotto controllo una strana rabbia che si stava sfogando dentro di lui, per notare la mia risposta. Almeno, a giudicare dalle oscillazioni veloci della sua gamba.

«Te la farò breve, perché detesto parlare di queste cose» riprese, lasciandosi cadere con la schiena sul materasso, con un atteggiamento di rassegnazione mista a nervosismo. Non gli avevo chiesto io di raccontarmi quel lato della sua vita. O meglio, lo avevo fatto prima, quando non sapevo che c'entrasse la sua famiglia. Ma adesso sembrava che fosse lui a volermi rendere partecipe. «Mia madre ha avuto un incidente andando a prendere mia sorella da un'amica» disse senza staccare lo sguardo dal soffitto, mentre la sua voce si macchiava di una sorta di dolore controllato.

NOCTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora