57 - La chiave di volta (II)

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Il perdono è il concetto più umano di religione.

Quello era l'unico pensiero che aleggiava nella mia testa, mentre osservavo per la milionesima volta il dipinto di Rembrandt sul mio portatile... Il ritorno del figliol prodigo.

Cosa diavolo significava?

All'inizio credevo che potesse esserci qualche altro messaggio nascosto, qualcosa che potesse contenere un indizio o un dettaglio che dovevamo scoprire. In fondo, non avrei dovuto essere sorpresa che la mia mente avesse ragionato in automatico in quel modo: erano mesi che mi allenavo a individuare ogni più piccolo elemento per trasformarlo in un'arma a nostro vantaggio. Avevo dovuto imparare a valutare le implicazioni di ogni situazione, prima per scoprire cosa ci fosse dietro al medaglione inviatomi da mia madre, e poi per battere Smith al suo stesso gioco.

Forse era per quello che avevo impiegato più di due giorni per capire il vero significato di quella matita.

Mirabelle, o chiunque si fingesse lei, voleva semplicemente Alex. Voleva che tornasse sui suoi passi, o voleva che tentasse di contattare il mittente di quel messaggio. Era solo quella la chiave: comunicare con chiunque ci fosse dietro a quella faccenda. Ma per quanto ne fossi consapevole, quello non era affatto il momento giusto.

«Firma questa deposizione, Cassandra» Lauren mi passò la cartelletta che teneva tra le mani, indicando i post-it azzurri che aveva appiccicato per semplificarmi il lavoro. «Quando sarà tutto pronto, presenterò il tuo caso al giudice. Eri minorenne quando ti ha chiesto di firmare un documento legale, non avrebbe dovuto farlo dato che non eri sotto la sua tutela, ma il fatto che sia anche il tuo padre biologico complica la situazione».

Lauren era l'efficienza fatta persona. James le aveva confidato mesi prima che non fossi sua figlia e tutte le mie domande delle settimane precedenti l'avevano allertata. In poche parole, aveva già pronto il mio caso ancora prima che Smith fosse stato arrestato.

«Cosa ne facciamo dei soldi?» mi chiese poi, battendo i fogli sul tavolino per ordinarli. Non eravamo nel suo ufficio questa volta, ma a casa Parker, dove ero passata per capire come andassero le cose con James. Sollevai lo sguardo su di lui, ma se ne stava ancora impalato di fronte alla finestra, come se quella conversazione non lo riguardasse. «Quando verranno sbloccati i fondi» riprese Lauren, attirando la mia attenzione, «una parte sarà comunque tua, quindi è opportuno valutare le alternative con congruo anticipo».

Trassi un lungo sospiro, quella era la parte che mi piaceva meno. «Non posso rifiutarli?» chiesi.

Era la terza o la quarta volta che Lauren sentiva quella domanda. Nei giorni scorsi non avevo voluto sapere niente di quelle somme. Non si trattava solo dell'eredità di Smith, ma anche dei numerosi conti che aveva creato a mio nome e che erano sparsi per tutto il mondo. Era una liquidità già disponibile, a cui però io non ero minimamente interessata.

«Hanno nominato un curatore, Cassandra, ma impiegherà poco a sbloccare questi fondi, quindi è bene che tu abbia qualche opzione».

James, appostato di fronte alla finestra, inspirò piano. L'unica reazione che si era concesso durante quel lungo colloquio che durava da quasi due ore. Se ne stava lì, come se la questione non lo toccasse, come se io e Lauren stessimo parlando delle composizioni floreali per il mio diploma, piuttosto che del nostro futuro.

«Papà?» lo chiamai con una voce minuscola. Avevo bisogno di lui, di un suo consiglio, di una parola di supporto. Ma quasi non ci speravo neanche più, erano settimane che si era rinchiuso nel suo silenzio.

Si voltò comunque con un sorriso, ma era lo stesso di sempre: finto, ferito. Lo implorai con gli occhi e ciò lo spinse quantomeno a raggiungere il divano, posizionandosi al capo opposto rispetto al mio. Vederlo così rigido, così a disagio con me, mi spezzava il cuore.

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