38 - Caos (I)

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Che non avessi più il benché minimo controllo della mia vita, lo avevo capito molto prima di arrivare a Danvers. Ero stata sballottata come un pacco postale per diciassette anni, sempre allenata a reagire, sempre istruita ad adattarmi, a sfruttare qualsiasi dote in mio possesso per avere successo. Eppure, mentre l'automobile mi portava via dal Ranch del Sole, realizzai che nessuno mi avesse mai insegnato a gestire le sconfitte.

«Non capisci cosa hai appena fatto» mormorai per l'ennesima volta infilandomi le mani nei capelli.

Avevo cercato di perdonare Caleb un migliaio di volte, da quando avevo scoperto che mi avesse controllata per conto di Michael. Mi ero convinta che lo avesse fatto per proteggermi e avevo anche cercato di passare sopra al naturale istinto che mi diceva di non fidarmi più di lui, perché sapevo che tutti meritassero una seconda possibilità, ma questo... Questo non sarei mai riuscita a perdonarglielo del tutto. Aveva appena distrutto l'unica via di fuga sicura, che ero riuscita a stento a costruirmi. L'unica possibilità per salvarci, senza far soffrire James.

«Dobbiamo tornare indietro» dissi a bassa voce, quasi parlando tra me. Poi, mi voltai nella sua direzione, osservando con rabbia la tranquillità con la quale stava guidando verso il centro città. «Caleb, dobbiamo...».

«Sì, tornare indietro» completò lui, interrompendomi. Sbuffò basso, mentre la mano rimaneva tesa sul volante. «L'hai già detto».

«Caleb, non è uno scherzo» replicai cercando di dimostrarmi ferma, nonostante sentissi gli occhi pulsare. No, non potevo andare in panico. Mi schiarii la voce, tentando di mantenere la calma. «Ho bisogno che tu mi stia a sentire».

Continuava a non guardarmi, gli occhi fissi sulla strada e l'espressione tranquilla. Il modo in cui mi ignorava indicava chiaramente che non volesse neppure fare lo sforzo di prendermi sul serio e quell'atteggiamento metteva a serio rischio tutti i miei tentativi di mantenere il controllo. Perché diavolo nessuno mi dava mai retta?

«Oh, ti starò a sentire molto volentieri» replicò lui dopo qualche secondo, mentre faceva manovra nello spiazzo adiacente a un vecchio supermercato che ancora sopravviveva alla periferia di Danvers. Era sporco e isolato, e probabilmente proprio per quello faceva al caso nostro. «Sono impaziente di scoprire cosa abbia spinto Alex a rivolgersi proprio a me».

Alex.

Il suo nome fu come un pugno al costato che mi lasciò senza fiato. Ma non ebbi neppure il tempo di recuperare la lucidità e di chiedere spiegazioni a Caleb, che ogni pezzo s'incastrò da solo, nell'esatto istante in cui vidi un'altra macchina posteggiata a qualche metro da dove ci stavamo fermando noi.

Alex se ne stava appoggiato alla portiera con le braccia incrociate talmente rigidamente, da far tendere la stoffa della felpa che indossava, così come le labbra erano contratte in un'espressione severa, che era da tanto che non vedevo sul suo volto.

Era un altro Alex. Un Alex diverso dalla versione paziente e protettiva della sera prima. Aveva cancellato qualsiasi emozione dal suo viso. Con sguardo fisso, si limitò a osservarci scendere dalla macchina, senza battere ciglio.

Slacciai velocemente la cintura, mentre sentivo dentro di me una serie di emozioni talmente contrastanti, che quasi neanche mi accorsi delle chiavi che Caleb mi stava porgendo. Erano quelle della mia macchina e le ficcai in tasca con impazienza, prima di affrettarmi a chiudere la portiera subito dopo di lui. Fui abbastanza veloce, però, da sentirli scambiare alcune rapide parole.

«Sei arrivato in tempo?».

Era stato Alex a parlare. Aveva rivolto quella domanda a Caleb con voce fredda e distaccata, neppure il più piccolo accenno di emozione a sostenere le sue parole.

NOCTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora