34 - La cena (II)

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So che sei la figlia del sindaco Smith.

L'ammissione di Michael rimbombò nella mia testa come se avessi messo quella frase in loop. Lo sapeva... Lo sapeva da un pezzo, a giudicare dall'espressione rilassata che mi stava rivolgendo, con gli occhi socchiusi e il labbro inferiore bloccato tra pollice e indice.

Rimasi pietrificata. Con le goccioline di condensa che, dal contenitore del gelato, scivolavano sulle mie dita, con il cielo che aveva preso a tuonare e le nuvole dense e plumbee che schermavano il bagliore fioco della luna, io riuscivo solo a ricambiare in tralice lo sguardo di Michael, mentre questo si faceva sempre più torvo.

Non avrei dovuto sentirmi così sconvolta. Era la conferma che volevo, giusto? Anzi, avrei dovuto provare sollievo, perché Richard usciva definitivamente di scena e perché ciò significava che avrei avuto una sorta di potere sul sindaco Smith. Solo che... Solo che non credevo, che sarebbe arrivata in quella maniera: così inaspettata e da parte di una persona di cui non mi fidavo minimamente.

Feci per aprire la bocca ma, proprio in quel momento, la figura di Kat sbucò dalla portafinestra che dava sulla cucina.

Appoggiò le mani ai fianchi, stropicciando il tessuto color panna. «Non vi ho dato una pausa» commentò con tono seccato. Poi staccò la destra e, con il pollice, indicò le sue spalle. «Riportate dentro i vostri culi».

Costrinsi i muscoli del mio volto a rilassarsi, e a rispondere con un sorriso di circostanza. «Arriviamo» confermai con tono rassicurante.

Avevo dimenticato quanto fossi brava ad adattarmi. Era un qualcosa che avevo sempre dato per scontato. Una capacità della quale a volte avevo persino dubitato, visto che mi sentivo sempre così fuori posto. Ma dovevo essermi allenata così tanto, grazie a tutti gli anni nei quali mio padre mi aveva trascinata in giro per il mondo, che la mia convinzione risultava perfettamente naturale.

Non mi ero neppure dovuta impegnare. Avevo articolato un sorriso dolce, senza doverci pensare. Perché sapevo che avrebbe mimetizzato ciò che stava frullando nella mia testa. E quella reazione istintiva, in parte, mi spaventava più della consapevolezza che il ragazzo di fronte a me avesse scoperto tutto. Le mie origini. La mia famiglia. E forse persino il mio piano.

Non azzardai a lanciare un'occhiata a Michael. Non mi permisi neppure di lasciarlo rientrare nel mio campo visivo. Semplicemente, mi alzai di scatto, afferrando con una mano il mio gelato mezzo sciolto, e con l'altra raccolsi lo chiffon verde, che accarezzava le mie gambe. Avevo bisogno di tenerlo a distanza. Almeno finché non avessi capito come reagire, a quel gioco a carte scoperte.

Michael non tentò di distogliermi da quella recita. Si limitò a seguirmi, ma sentivo la sua presenza dietro di me troppo reale, troppo concreta, per evitare che i miei pensieri corressero continuamente a lui. Il passo pesante e deciso, il respiro adesso più regolare, dopo essersi calmato... E proprio in quel momento, realizzai di avere ancora le chiavi della sua auto, agganciate all'anulare destro.

Mi fermai giusto un istante, permettendogli di avvicinarsi a me.

«Senti, Cassie...» iniziò con tono basso.

Sollevai lo sguardo su di lui, con quell'espressione indifferente, che avevo spudoratamente imparato a copiare da Alex. Non gli permisi di proseguire. Sbattei le chiavi sul suo torace, staccando velocemente la mano, non appena la sua si era sollevata e, senza dire una parola, tornai a voltarmi in direzione di Kat.

Solo quando gli diedi nuovamente le spalle, mi permisi di riflettere sul tono con il quale aveva pronunciato il mio nome. Nonostante mi fosse sembrato incolore, avevo scorto una sorta di indecisione... Quasi di rammarico. E a quel punto capii, che l'unica chance per uscire indenne da quella serata era fingere di essere venuta a conoscenza della paternità di Smith solamente in quel momento.

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