31 - Lo stage (I)

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Il silenzio è una componente che ha caratterizzato la mia vita molto a lungo. Avevo iniziato a farci i conti da piccola, quando James decideva di partire per missioni in luoghi non particolarmente accessibili, dove le uniche scuole internazionali erano disponibili solo a centinaia di chilometri di distanza. E allora passavo anche intere giornate senza poter parlare con qualcuno, specialmente se mio padre portava qualche collega a lavorare da noi e io mi rintanavo nella mia stanza per ore.

Avrei quindi dovuto essere abituata a quelle situazioni: quelle dove non puoi fare altro che aspettare, portare pazienza e attendere che il tempo faccia il suo corso. Il fatto che ne fossi abituata però, non lo rendeva più facile. A maggior ragione, dopo ciò che era accaduto il giorno prima.

Alex mi aveva mollata a casa Parker come se fossi un pacco postale. Velocemente e senza guardarsi indietro, era sfrecciato via dal mio quartiere senza fornire alcuna spiegazione. Quello non lo avevo previsto: avevo pensato che si sarebbe arrabbiato, forse che sarebbe rimasto ancora più deluso dal mio comportamento, ma non avevo preso in considerazione neppure per un singolo istante, che non mi avrebbe neppure rivolto la parola.

Non sapevo che fine avesse fatto. Aveva staccato il cellulare e io non avevo osato chiamare Philip per chiedere informazioni. Dopotutto era stato proprio a lui che avevo mentito. Quindi alla fine mi ero ridotta a controllare le pagine social di tutti i componenti dei Falchi e persino quella di Christian, per cercare di capire come avesse passato quella serata.

Sapevo che fosse patetico, non avevo bisogno che qualcuno me lo dicesse chiaro e tondo per saperlo. Tuttavia, provavo sempre una sorta di apprensione quando litigavo con Alex, che faticavo a gestire. Una perdita di controllo che mi faceva sentire meno razionale, meno padrona di me stessa e delle mie reazioni. Accadeva sempre con lui, solo con lui, e mi spaventava da matti. Nonostante i miei sforzi però, Alex era semplicemente sparito e io mi ritrovavo a varcare la soglia della Churchill Accademy senza sapere cosa aspettarmi.

«Ciao straniera!». Feci appena in tempo a sentire la voce squillante di Alice, che la vidi lanciarsi con tutto il suo peso su di me. Le sue braccia si attorcigliarono al mio collo, e finimmo per ondeggiare pericolosamente verso gli armadietti. «Non ti vedo da tre giorni e mi sembra passata un'eternità» si lamentò, con la guancia schiacciata alla mia.

Tre giorni?

Strabuzzai gli occhi. Era sconvolgente pensare che fosse passato così poco, da quella serata al Blackout. Eppure, in quelle settantadue ore avevo scoperto che Philip possedesse il medaglione di Nocte, mia madre si era ripresentata a Plains Park, avevo scoperto che James non fosse davvero mio padre e mi ero persino introdotta a casa del sindaco Smith. In soli tre giorni, tutto era cambiato... Mi sembrava così assurdo!

«Stai bene dopo il Blackout?» le chiesi preoccupata scostandomi un po' per osservarla.

L'ultima volta che avevo visto Alice, il suo aspetto mi aveva dato l'impressione che ci fosse qualcosa della sua vita che la preoccupasse. Adesso che eravamo tornate a scuola però, la sua impeccabile facciata era stata ricomposta con cura, perché i capelli neri ricadevano perfettamente lisci e ordinati dietro le sue orecchie, mentre una precisa linea di kajal contornava gli occhi chiari.

Abbassò comunque lo sguardo alle mie parole. «Non avrei dovuto portarti lì» mormorò imbarazzata, spostando il peso dalla gamba destra a quella sinistra. «Ogni tanto dimentico come sia quel posto».

Sollevai una mano per interromperla. L'ultima cosa che volevo era che si assumesse la colpa per una situazione che non era minimamente dipesa da lei. «Sono stata io a dirti che avevo bisogno di distrarmi». Feci una pausa, lasciando scorrere lo sguardo oltre le vetrinette che separavano il corridoio dall'atrio. «Diciamo che ci siamo riuscite fin troppo bene».

NOCTEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora