XVI

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Ella Lyudmila Ivanov, Hotel De Mattheis, Las Vegas, Stati Uniti d'America.

Ero a letto con trentanove di febbre e se questa non avesse potuto essere considerata sfiga, non  avrei saputo proprio dire di che diamine stessi parlando. Avevo trascorso due giorni interi nella palestra dell'hotel, perché avevo voluto disintossicarmi da qualsiasi russo o irlandese che fosse e avevo pagato il prezzo per la mia incoscienza.

Ne avevo le scatole piene e per la prima volta nella mia vita avrei voluto avere la fortuna di Gennady e volare un po' più là, lontano dalle ali dei miei protettivi zii e di mio padre; invece, per colpa della palestra e le escursioni termiche di quel posto schifoso... ero bloccata in un letto con la tonsillite e con più di metà stirpe Ivanov ad agitarsi neanche mi avessero dovuto sottoporre ad un'operazione difficilissima.

"Ella!" Mio padre entrò trafelato ed io chiusi gli occhi in sofferenza. "Ella, la mamma mi ha detto di farti prendere l'antibiotico."

Mi coprii ancora di più con il lenzuolo, nonostante fuori ci fossero quasi quaranta gradi e mi tappai le orecchie. Tre minuti prima era venuto Vanja, una mezz'ora fa Mikhail con Andrej, non avrei retto un altro Ivanov nella mia stanza.

"L'ho già preso," mugugnai. "Potete, vi prego, potete lasciarmi dormire in pace."

Mio padre rispose al telefono senza preoccuparsi di seguire i miei consigli.

"Maria, Mary, ti ho detto che l'ha già preso l'antibiotico, vedi che mi ricordavo correttamente... chissà perché pensi sempre che non sappia quando dare le medicine ai miei figli."

Sbuffai e mi accartocciai di più, sperando di passare inosservata, ma osservare mio padre perdere la testa per una malattia quasi innocua era uno spettacolo divertente, quando questo avveniva fuori dalla porta della mia stanza.

"Papà, ti prego, la mia testa sta esplodendo."

"Ella, piccola"—si accomodò sul letto e mi pettinò i capelli all'indietro—"devo andare da Aleksei, mi dispiace lasciarti qui."

"No." Quasi tirai un sospiro di sollievo. "Non preoccuparti." Mancò davvero poco che esultassi. "Non morirò per due linee di febbre."

Udii la risata di mia madre in lontananza e prima che il grande e grosso Dimitri Ivanov prese d'assalto l'uscita per tornare dal suo primogenito, ero già caduta nel mondo dei sogni.

Mi risvegliai qualche ora più tardi in un bagno di sudore, abbarbicata nelle coperte e con il fiato corto. Cercai di sollevarmi dalla mia calda prigione e per poco non mi sfuggì uno stupido urletto quando compresi chi si trovasse ai piedi del letto.

"Buonasera."

E aveva anche il coraggio di sorridere del mio stato pietoso.

"E tu ora cosa vuoi?" Mi infossai con la testa sotto il cuscino e mugugnai un'imprecazione. "Ti prego, perché sei venuto a disturbarmi?"

"Vedo che sei sempre molto riconoscente." Mi fece un sorriso sghembo e si sistemò il cappellino da baseball al contrario; nonostante fossi completamente tramortita dall'antibiotico, trovai il barlume di stupidità necessaria per osservarlo in ammirazione. "Come al solito."

"Dimmi perché sei qui." Feci un movimento con il mento nella sua direzione. "A parte divertirti a vedermi miseramente ridotta in pezzi, non credo ci sia molto per te."

Con nonchalance si accomodò proprio di fianco a me e mi staccò la maglietta sudata dal seno.

"Sei proprio ridotta uno straccio."

"Per essere un irlandese sei perspicace." Mi tirai il lenzuolo fin sotto al mento e ringhiai. "Giù le mani, Jack."

Si allungò incurante del mio stato di salute e mi sorrise sghembo.

Il branco di San Patrizio |THE NY RUSSIAN MAFIA #7|Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora