XXXIII

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Ella Lyudmila Ivanov, paese remoto vicino a Belfast, Irlanda del Nord.

Quando la mattina seguente mi svegliai, non ci fu nessuno al mio fianco. Il letto era vuoto e nella stanza aleggiava solo un soffuso miscuglio di quella che era la colonia di Noah, segno che non aveva abbandonato il luogo da molto, ma da abbastanza tempo per permettere al suo profumo di sfumare.

Mi sollevai con lentezza, assaporando per la prima volta, forse da qualche settimana, la libertà di poter rimanere senza paura tra le coperte e rilassarmi.

Non vi era nessuno che avrebbe attentato alla mia vita, che mi avrebbe messo alla prova o anche solo cospirato contro di me a causa del mio cognome.

Ero in pace.
Allungai le braccia sul cuscino, sorrisi e-

"Perché sorridi come se fosse il miglior risveglio della tua vita?" Quella voce mi fece saltare i nervi. "Sarà forse perché hai dormito vicino al sottoscritto? Sai che una volta una donna sulla sessantina voleva pagarmi fior di quattrini per-

Mi sollevai di scatto, adocchiai la mastodontica fisionomia di Noah mezzo nudo al centro della stanza, a eccetto di uno scandaloso asciugamano minuscolo in vita e mi rilasciai cadere sul materasso con nervoso ed imbarazzo.

"Dio, qualcuno non ti ha insegnato a coprirti? E a stare zitto? Sono le sette del mattino." Mi portai un cuscino sopra la testa e chiusi gli occhi. "E a lasciarmi in pace."

"Non abbiamo molto tempo prima che arrivino i tuoi genitori."

Un'altra stilettata che portò lontano la dolcezza del risveglio.

"Quando sono partiti?" La mia voce fu attutita dal cuscino e dalla mia frustrazione. "Noah?"

"Questa notte alle ventiquattro." Percepii un soffuso tonfo, immaginai il piccolo asciugamano afflosciarsi ai suoi piedi e per poco anche il mio autocontrollo non venne spazzato sotto al tappeto sul bel parquet, così come l'inutile stoffa che fino a qualche secondo prima gli aveva coperto buona parte di quelle che erano le sue grazie. "Atterreranno tra meno di un'ora."

Strinsi con forza gli occhi per scacciare lontano la fantasia di quel corpo e mi rigirai nel mio bozzolo.

"Allora ti conviene non farti trovare nella mia stessa camera." Quasi mi sollevai per spiare la sua espressione. "Gli Ivanov sono i tipi che prima sparano e poi chiedono il perché."

"Purtroppo, Ella... la nostra casa sicura ha camere contate e nonostante adori la mia privacy, non mi fido abbastanza di te e in materia di sicurezza io e tuo padre siamo sulla stessa lunghezza d'onda; in più, mi hanno raccontato come sai tenere una pistola in mano e non intendo soprassedere sulla salute dei miei ospiti."

Dal tono di voce supposi stesse ridendo o quanto meno sorridendo, perché quel dannato ragazzo sembrava adorare mettermi in difficoltà.

"Dicono che mio padre la sappia tenere meglio di me la postola; chissà, magari vedremo chi dei due ha più talento."

Riuscii a fare solo un respiro, prima di percepire una roboante risata e per un secondo rimasi incantata da quel suono; nelle tre settimane in cui ero stata ospite a Las Vegas, non avevo mai udito Noah ridere in presenza degli altri, men che meno lo avevo mai scorto sorridere. Le uniche volte in cui mi era capitato di studiare come quelle due labbra si sollevavano verso l'alto, erano state poche, pochissime, e solo quando mi era capitato di incontrarlo da solo. E in quel dannato ascensore.

"Non lo metto in dubbio."

Uno sfrusciare allontanò dalla mia mente il ricordo dell'ascensore e compresi stesse indossando quanto meno un capo per coprirsi, per questo motivo decisi di liberarmi finalmente dalle coperte e salutare il nuovo mondo.

"E quindi"— mi sollevai dal materasso e lasciai che il lenzuolo scoprisse parte della camicia da notte che avevo trovato nel bagno—"cosa vi aspettate che faccia tutto il giorno tu e i tuoi fratelli? Rimanere a rimuginare in questa camera?"

Quando si girò feci fatica a trattenermi dallo spalancare la bocca, perché Noah, lo stronzo sadico, non aveva allacciato la camicia e sapeva, sapeva quanto dannatamente si vedessero i suoi addominali. Deglutii e lo udii ridacchiare di nuovo, così presa dalla mia debolezza... dalla debolezza che sarebbe stata di chiunque a giudicare dallo stuolo di uomini e donne le cui espressioni si illuminavano quando camminava in un luogo pubblico, mi diressi con un diavolo per capelli nel bagno e chiusi la porta, forte.

Fortissimo.

Raggiunsi i sei fratelli per colazione, per il semplice fatto che la colazione non era stata recapitata nella mia camera, ma fui saggia abbastanza da non incontrare lo sguardo di nessuno perché con tutta probabilità, parte delle decisioni della società di cui facevo parte, avevano costretto quel centinaio di esseri umani a rifugiarsi in quella casa.

Presi un piatto di pancake e bacon, la colazione dei campioni secondo Aleksei, Fillip e Gennady, e mi accomodai lontana da tutti.

Non sollevai la testa nemmeno quando udii dei saluti chiaramente rivolti ai fratelli O'Crowley e nemmeno quando uno di quelli prese posto di fronte a me. Sfarfallai lievemente le palpebre e incontrai gli occhi di Adan, il più grande.

"Ciao."

Inarcai un sopracciglio e bevvi un sorso di tè.

"Ciao?" Non fu tanto una risposta, quanto più una domanda prima di fiondarmi di nuovo nel cibo, ma quando il tizio non si mosse e nemmeno parlò, sollevai le palpebre con fastidio crescente. "Che c'è?"

"Niente." Scrollò le spalle con un po' di divertimento a bagnargli le iridi simili a quelle di Noah. "Ti studio."

"Non sono un soggetto molto interessante."

"Ed è qui che ti sbagli." Si allungò sulla sedia e incrociò le braccia la petto. "Sei molto interessante e credo che lo sarà ancora di più quando incontreremo il mitico Ivanov."

"Non hai idea del guaio in cui ti potresti cacciare," borbottai.

"No, ma sono curioso di vedere come Noah si muoverà su questo campo minato."

"Io e Noah non stiamo insieme, se è questo che stai suggerendo." Inclinai la testa verso di lui con fare cospiratorio. "È già tanto se ci tolleriamo a vicenda."

"Eppure non hai titubato un secondo prima di prendere con lui quell'aereo, anche se ciò che si conosce di Noah al di là dell'Irlanda è riprovevole."

"Sono la prima che conosce quanto possono esssere false le opinioni che gli altri hanno nei tuoi confronti, e quanto la nostra società possa essere crudele, quindi, Adan non mi serve la lezioncina e no, non stiamo insieme, le palle di tuo fratello sono al sicuro." Gli feci un sorriso alla Mikhail Ivanov. "Ora posso tornare a mangiare?"

Gli occhi dell'uomo si dilatarono e poi scoppiò a ridere sorreggendosi la pancia.

"Ora comprendo molte cose," cercò di dirmi tra le lacrime. "Ah, quel ragazzo non si smentisce mai."

Mi concentrai di nuovo sulla colazione, perché quella conversazione mi stava già saturando i neuroni, ma quando sollevai gli occhi dal piatto e li feci vagare lungo la sala da pranzo per distrarmi da quella conversazione, si imbatterono su un uomo alto, affascinante per essere di mezza età, con una bellezza classica e americana, nonostante i suoi tratti fossero irrigiditi dal patrimonio russo... e quei due occhi, troppo gelidi per poter appartenere a qualcuno di diverso che non condividesse con me metà del patrimonio genetico.

"Oh, merda." Tutta la mia salivazione si azzerò. "Merda." Adan si trattenne dal ridere, ma con calma glaciale esterna, con la stessa calma che mio padre stava emanando, dritto come un fuso in piedi vicino alla porta principale, camminai in mezzo ai tavoli e lo raggiunsi. "Padre."

L'uomo inclinò la testa verso di me e sorrise diabolico.

"Ella." Mi accarezzò la guancia con tatto. "Non fingere con me, so che te la stai facendo nelle mutande."

Le mie labbra tremolarono ma sapevo che dietro quel vago tentativo di alleggerire la tensione vi fosse paura per la mia condizione, terrore per sua figlia e rabbia.

"Sempre così accurato, Dimitri." La mano di mia madre si appoggiò sulla mia spalla. "Mi sei mancata tesoro e sei mancata anche a tuo padre, nonostante non voglia ammetterlo."

Il branco di San Patrizio |THE NY RUSSIAN MAFIA #7|Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora