Capitolo 52 (I). Il lungo ritorno a casa

48 5 12
                                    

Tornarono a casa tenendosi per mano; erano le undici e venti; Ghemon andò loro incontro scodinzolando; appena entrati Maria disse subito:

«Marco, devi chiamare tua moglie.»

Egli prese il suo cellulare, c'era la chiamata persa di Anna; uscì in cortile:

«Micia ciao...»

«Sì, Ilaria è a casa, l'ho presa...»

«Sì è tardi, lo so, ma si era nascosta bene.»

«E certo, era rimasta qui per paura...»

«Sì, sì, è così: avrebbe sacrificato anche il figlio, ma io non gliel'ho lasciato fare, domani sale con me, l'ho convinta.»

«Come, "come"? L'ho convinta, micia, cosa vuoi che abbia fatto, su!»

«L'avvocato? No, non credo che serva; Emanuele si è troppo radicato a casa di Andrea, ma magari ci parlo anch'io.»

«No, non è arrabbiata, solo triste...»

«Io? Ti sembro allegro? No, allegro no», e invece rideva, «solo sollevato che almeno questa è sistemata; a Emanuele penseremo domani; sono un po' stanco, questo sì, fammi andare a dormire, micia, domani mattina partiamo presto.»

«No, non credo...la macchina l'ho presa a mio nome, ma non ti preoccupare, guido piano, quel che ci metto ci metto. Elena dorme, vero?»

«Ah, meglio così se c'è tua madre; dalle un bacio domani mattina quando si sveglia, spero di tornare in tempo domani sera per salutarla...tu domani lavori?»

«Ah, no? Un permesso?...ah, OK, ciao micia,  buonanotte...baci...si, ti amo anch'io micia, a domani.»

Non le disse ancora che, in realtà, aveva deciso che dalla notte seguente non avrebbe dormito a casa sua; quando tornò in cucina Maria era in piedi di fronte a Ilaria a capo chino; usciti dalla stalla ella aveva pulito sommariamente il vestito —usato come lenzuolo — dalla paglia e dalla polvere, ma era tutto stropicciato.

«Marco, non so cosa tu abbia detto a tua moglie, ma confessalo appena torni; non lo merita che le facciate questo di nascosto, tanto se ne accorgerebbe, io l'ho capito con uno sguardo quando vi ho visto salire, lei farà altrettanto.»

«Si vede così tanto?»

«Sì, certo», li guardò scuotendo il capo, «e non solo per il vestito. Avete entrambi lo sguardo lucido, triste, ma felice, come gli innamorati al primo appuntamento...», si sedette, scosse il capo, se lo tenne con la mano: «però siete fratelli! O Dio Signore! Avrei dovuto pensarci subito...», si volse alla figlia, «non farti andare a Genova a quattordici anni, già l'amavi; il tuo cuore è tenace come il mio! Ma per tuo fratello

«Mamma...», Ilaria le andò vicino, «non piangete, non abbiamo resistito, anche se non mi aveste fatto salire a quattordici anni sarebbe successo comunque prima o poi, lo avrei richiamato a Colliano, con le lettere o il telefono; ci amavamo troppo: perdonateci.»

«Perdonarvi, Ilì? Oh, mio Dio, come posso perdonare qualcosa che io stessa non ho saputo impedire? Ah, maledetto quel funerale che vi ha fatti rivedere! Marco...», si rivolse a lui, prendendogli la mano, «non far soffrire tua moglie più del necessario, però; quando ha chiamato qui a casa era preoccupata, già lo sospetta. Stanotte non dormirà dal pensiero.»

«Sì zia, certamente...», Marco gliela strinse e poi andò a sedersi di fronte a lei, «l'avevo già pensato; io e Ilaria non faremo le cose di nascosto, non ci riuscirei, e poi...», alzò lo sguardo verso la sorella, «Ilaria non si merita di fare l'amante e Anna la moglie tradita...», aveva ancora il telefono nell'altra mano, lo mise in tasca, «di certo non glielo dico per telefono, però...Ili», si rivolse alla sorella, «domani sera andiamo da Anna — tutti e due — e glielo diciamo, me ne assumo la responsabilità. Quel che deve essere succeda.»

Dolore e perdono (Parte VIII: I fratelli amanti)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora