Cap.32 Emergency

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MICHAEL

Corro come un pazzo. Il cuore mi esplode in petto e non so se sia a causa dello sforzo fisico o della paura. Quale razza di uomo lascia una donna sola nel cuore della notte in una cazzo di stazione piena di tossici e persone poco raccomandabili?

Scendo i gradini velocemente e mi precipito al centro della Grand Central Terminal. Di notte questo posto si trasforma, diventando qualcosa di molto diverso da ciò che è di giorno; ci sono senzatetto appostati ai lati, uomini privi di sensi, gente ubriaca che litiga e drogati che si bucano le vene. Ho il ribrezzo alla vista di tanta schifezza. Janette. Il mio obiettivo è Janette.

«Hai visto per caso una ragazza alta, mora, magra, con indosso un vestito bianco e i capelli sciolti?», chiedo all'unica donna che mi sembra essere ancora sobria.

«Tutto ha un prezzo, giovanotto», mi incalza subito lei, allungando la mano.

Estraggo cento dollari dal portafoglio e li premo nella sua mano, stringendola.

«Parla», m'impongo, torreggiando su di lei.

«Sì, l'ho vista. Dovrebbe essere da qualche parte qui intorno. Degli uomini la stavano infastidendo e l'ho vista allontanarsi verso quel lato», alza una mano nella direzione opposta alla mia.

Il mio cuore perde un battito nell'udire quelle parole. Due uomini. Lei. Se solo hanno osato torcerle anche un solo capello, se la vedranno con me e nessun santo potrà sottrarli dalla mia ira. Nessuno.

Corro nella direzione da lei indicata e la vedo lì, rivolta con il viso verso il pavimento. L'abito sporco, i capelli arruffati le coprono il viso, le braccia sono molle lungo i fianchi.

«No, no, no, cazzo», blatero, accovacciandomi ai suoi piedi.

Janette è priva di sensi. Del sangue fuoriesce dalla sua tempia, scivolando lungo la guancia. Il liquido rosso gocciola fino al suo collo. Mi chino sulle sue labbra e percepisco il flebile respiro fuoriuscire da essa. È viva. Ma non è qui con me.

«Janette, ehi», la schiaffeggio leggermente, mantenendola salda tra le mie braccia.

Nulla. Non risponde ai miei stimoli.

«Janette, ti prego, apri gli occhi», la imploro.

Una lacrima bagna il mio viso, infuocandolo. Mi sento un coglione. Un fottuto coglione. Se solo io avessi risposto prima, se solo non l'avessi lasciata andare via con quel lurido, non saremmo arrivati a questo. Mi sento così piccolo, così impotente.

«Mm... Mich...», la sento balbettare con voce flebile.

«Sì, sono qui», mi affretto a dire, alzandole maggiormente il capo.

La stringo sul mio petto mentre con una mano le accarezzo lentamente i capelli.

«Sono qui ora, nessuno ti farà niente», sussurro con voce spezzata.

«Io... non», balbetta, tremante. «Non so cosa mi sia successo».

«Andiamo, ti porto in ospedale», dico, alzandomi e prendendola in braccio.

Janette non si oppone; porta le braccia al mio collo, poggiando la testa nell'incavo della mia spalla. La stringo forte a me, curandomi di non farle del male. Ho paura. Paura che possa esserle accaduto qualcosa di brutto. Paura che possano averla sfiorata con le loro luride mani in punti non visibili.

Una volta fuori dalla stazione, mi fiondo sul primo taxi disponibile.

«Per favore, raggiunga il primo ospedale vicino», sistemo Janette sulle mie gambe, «faccia in fretta, la supplico!», imploro con un tono che solitamente non mi appartiene.

(UN)fortunately we are in loveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora